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Uccellacci e uccellini

Nei primi giorni di novembre sembrava proprio che fosse arrivata al termine la saga di “Twitter”. Dopo mesi di tira-e-molla Elon Musk, definito l’uomo più ricco del mondo, ha acquisito per la modica cifra di 44 miliardi di dollari il controllo di uno dei più conosciuti servizi di comunicazione su Internet.

Quello che spesso viene chiamato “blue birdie”, a causa del suo logo che rappresenta un uccellino blu, è un servizio aperto nel 2006 e che quasi immediatamente ha riscosso un grande successo, soprattutto tra i blogger e i giornalisti che ne hanno apprezzato la semplicità d’uso e la velocità. La limitazione del numero di caratteri (140) che si potevano usare per ogni messaggio (“tweet”) e la possibilità di spedirli da un telefonino anche non molto potente hanno sicuramente contribuito alla diffusione di uno strumento che alla fine del 2012 aveva 200 milioni di iscritti che sono diventati 396 alla fine del 2021. Nonostante i numeri, che posizionano “Twitter” alquanto in basso nella classifica (per quello che vale) dei “social network” la sua importanza nel panorama mediatico è stata superiore a quella di altri servizi con un numero di utenti ben superiore. Secondo alcune ricerche sociologiche a usare questo strumento sono soprattutto maschi, di età compresa tra i 25 e i 34 anni e residenti nella maggior parte dei casi negli USA e in Giappone. Uno dei fattori che hanno influito sulla sua crescita di importanza è il fatto che moltissime persone famose, in tutti i settori della vita sociale, hanno iniziato a utilizzarlo o, in alcuni casi, a pagare qualcun altro per farlo. Gli introiti dell’azienda derivano principalmente dalla pubblicità, fatta direttamente o tramite una delle altre società che sono state acquisite nel corso degli anni. Alla fine del 2021 “Twitter” aveva circa 7500 dipendenti.

L’ingresso del nuovo padrone è avvenuto in modo molto rumoroso visto che il personaggio sa che non c’è niente di meglio che una campagna pubblicitaria promozionale e soprattutto gratuita, immancabilmente arrivata. Subito dopo i primi annunci tutti i mezzi di comunicazione, vecchi e nuovi, hanno seguito il balletto che ha preceduto l’acquisizione vera e propria. Anche perché Elon Musk ha iniziato a rilasciare dichiarazioni sui cambiamenti che aveva in mente di attuare una volta entrato in possesso dell’azienda. Quello principale riguardava la politica di moderazione dei contenuti che è da sempre tra i problemi centrali in un qualsiasi “social” mentre il secondo aveva a che fare con le modifiche da implementare per migliorare la redditività del servizio.

Una volta acquisito “Twitter” si è sollevata una tempesta che ha colpito tutti, sia gli utenti del servizio che i dipendenti della società. Ai primi è stato annunciato che la “spunta” sul nome, vale a dire il simbolo che certifica “l’identità” di un utente, sarebbe diventata a pagamento. Per i secondi è andata molto peggio in quanto è stato anticipato che sarebbe stato licenziato addirittura il 75% del personale. Questi annunci hanno causato molto rumore e sono stati seguiti, come prevedibile, da una serie di smentite, di conferme, di passi in avanti e indietro. L’abbonamento per avere la “spunta” è passato da 20 a 8 dollari al mese e, in questo momento, è stato sospeso. Il numero dei dipendenti da licenziare è passato dal 75% al 50%, e secondo alcuni per risparmiare sulle buonuscite di quattro top manager (dai 20 ai 60 milioni di dollari a testa) sembra che Elon Musk li abbia licenziati “per giusta causa”, come diremmo in Italia.

Intanto, sempre per mantenere uno spazio sulle news, il nuovo padrone ha consigliato di votare il Partito Repubblicano nelle elezioni di medio termine che si sono tenute negli Stati Uniti la scorsa settimana. La pantomima potrebbe continuare ancora, tra il monumento dedicato al miliardario eretto dai gestori di una delle tante “criptomonete” e il commento complottista di Musk riguardante l’aggressione a Paul Pelosi marito di Nancy (Portavoce della Camera degli USA), poi cancellato; ma non aggiungerebbero molto di interessante alla storia. Nel suo primo discorso ai dipendenti, il nuovo padrone, sembra che abbia prospettato anche la possibilità di un fallimento dell’azienda a meno che non cambi – in modo radicale – il suo funzionamento.
Ed è questo forse uno dei punti chiave in quanto nel corso degli anni “Twitter” ha assunto un ruolo importante all’interno della comunicazione politica, soprattutto negli Stati Uniti, dove anche il Presidente in carica usa un account personale (“potus” che sta per President Of The United States) e si è molto spesso parlato della piattaforma sopratutto in relazione alle vere o presunte manovre da parte del governo russo per influenzare e manipolare la politica interna americana. L’importanza di questo servizio è iniziata probabilmente ai tempi di Barak Obama che è stato tra i primi a utilizzare in modo massiccio gli strumenti della comunicazione digitale. Non ci è voluto molto per rendersi conto che mentre uno spot televisivo può costare anche milioni di dollari un “tweet” ben scritto può raggiungere milioni di persone ed essere quasi gratuito. Allo stesso modo però un errore può essere pagato caro, come sa quel parlamentare costretto alle dimissioni nel 2011 per aver pubblicato una foto di troppo. Donald Trump, che ha fatto ampio uso di questa ribalta, ha avuto l’account “sospeso permanentemente” dopo l’assalto a Capitol Hill nel giorno della Befana del 2021.

Anche in Italia molti dei politici più noti scrivono (o fanno scrivere) su “Twitter” con risultati probabilmente meno impattanti che altrove ma che comunque vengono puntualmente ripresi dai mezzi di comunicazione di massa tradizionali.

Questa vicenda ha causato però qualche piccolo effetto collaterale positivo.

Nei primi giorni seguiti all’insediamento di Musk centinaia di migliaia di persone hanno abbandonato la piattaforma alla ricerca di strumenti di comunicazione alternativa. L’effetto di questi allontanamenti è stato visibile soprattutto su “Mastodon”, un software libero che ha un funzionamento molto simile a “Twitter” ma che, al contrario di esso si basa su una filosofia diversa, se non proprio opposta. Si tratta di una piattaforma non centralizzata ma formata da singoli server che possono essere “federati” tra loro e che permettono una buona interazione tra gli utilizzatori. Nelle ultime settimane molti mass-media (anche italiani) hanno indicato “Mastodon” come una possibile alternativa per gli utenti che hanno deciso di abbandonare il servizio del miliardario.

Questa sorte di terremoto avviene in un momento nel quale la situazione non è esaltante per il panorama dei “social” commerciali, visto che anche “Meta” (“Facebook”, “Instagram”, WhatsApp”, ecc…) ha recentemente annunciato il licenziamento di circa 11 mila dipendenti, il 13% del totale. E anche il settore delle “criptovalute” non se la passa molto bene.

Il futuro dell’uccellino blu non è ancora scritto, ma i problemi economici di una azienda che perde un milione di dollari al giorno, mescolati alla smania di protagonismo del suo nuovo padrone, potrebbero formare un miscuglio davvero esplosivo.

Il mercato e la finanza applicati alle aziende che operano nel mondo della comunicazione digitale hanno dato sempre il peggio di sé: da quando la tecnologia informatica è diventata un affare lucroso si sono susseguiti veloci periodi di crescita esponenziale e lo scoppio di “bolle” che hanno lasciato sul campo quelle che sembravano imprese indistruttibili. Ma anche in un settore che non produce, direttamente, beni materiali gli effetti di ascese e cadute si ripercuotono poi concretamente sulle persone.

Pepsy

[Pubblicato su “Umanità Nova”, n.28 del 20/11/2022]

 

Un governo vecchio

Internet vive di immagini, per cui alle principali notizie viene sempre collegata una foto o un piccolo clip video, anche quando non ce ne sarebbe bisogno. Così, contestualmente all’elezione del Presidente del Senato è rimbalzata su tutto il web la sequenza iniziale del film “Sbatti il mostro in prima pagina” (regia di Marco Bellocchio, 1972). La pellicola si apre con delle immagini di repertorio dove si vede l’attuale seconda carica della Repubblica che arringa dal palco una piccola folla durante un comizio. È interessante, oltre alle immagini, ascoltare l’audio che ha registrato un piccolo brano del discorso, probabilmente quello finale:

“… italiani che non hanno rinunciato all’appellativo di uomini che si uniscano al di sopra delle fazioni, al di sopra dei partiti, al di sopra delle divisioni interessate e volute, al di sopra dell’ormai superato, in disuso e troppo a lungo sfruttato fascismo e antifascismo. Si uniscano per dire sì alla libertà nell’ordine… questa dimostrazione, questa manifestazione vuole dimostrare che è possibile battere il comunismo, che è possibile battere i nemici dell’Italia e insieme lo faremo. Viva l’Italia.”

Il filmato è stato girato a Milano, probabilmente nel 1972, nel corso di una manifestazione indetta da quella che allora si autodefiniva “maggioranza silenziosa”, un estemporaneo raggruppamento che metteva insieme forze provenienti da aree politiche diverse che coprivano uno spettro molto ampio: dagli iscritti al “Movimento Sociale Italiano” (MSI) a quelli del “Partito Socialista” (PSI), incluso ovviamente l’area della “Democrazia Cristiana” (DC) e degli altri partiti più piccoli. Un agglomerato del genere, che oggi verrebbe definito un movimento trasversale, aveva come suo principale collante un comune nemico il “comunismo” che in quegli anni era identificato nel “Partito Comunista Italiano” (PCI) ma anche nei tanti gruppi della cosiddetta “sinistra extraparlamentare”. L’anticomunismo rappresentava la paura degli strati privilegiati della società riguardo alla possibilità che in Italia ci potesse essere una rivoluzione comunista. Un primo tentativo di organizzare quella paura fu fatto nel 1970 da Edgardo Sogno, partigiano “bianco” e medaglia d’oro per il suo contributo alla resistenza, che aveva provato a fondare un movimento anticomunista, non caratterizzato esplicitamente da una ideologia fascista, che auspicava la trasformazione dell’Italia in una Repubblica presidenziale, ristabilendo i “valori di una democrazia occidentale e nazionale”.

L’anno successivo, il 1 di febbraio, fu invece costituita ufficialmente a Milano una associazione denominata proprio “maggioranza silenziosa”, nel corso di una riunione tenuta nella sede del “Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica” (PDIUM”).

Questa “maggioranza silenziosa” fece parlare di sé per poco meno di un paio di anni, soprattutto perché le sue iniziative pubbliche, che si tennero principalmente in alcune città del nord Italia, vennero quasi sempre contestate da gruppi della sinistra extraparlamentare.

Intanto l’espressione “maggioranza silenziosa” era entrata nel gergo giornalistico e fu usata molto frequentemente negli anni ’70 e solo sporadicamente in quelli successivi. Un fugace ritorno alla ribalta dei mezzi di comunicazione di massa di quella espressione avvenne in occasione della cosiddetta “marcia dei 40000”, la manifestazione tenuta a Torino il 14 ottobre del 1980 dai quadri della FIAT.

Tornando al giorno d’oggi e leggendo anche il discorso di insediamento fatto dal Presidente del Senato potrebbe sembrare che le elezioni del 25 settembre 2022 abbiano portato al governo una versione moderna di quella “maggioranza silenziosa” che scendeva in piazza 50 anni fa. Ma non è proprio così.

La Storia non si ripete esattamente allo stesso modo ma ci sono comunque molte somiglianze tra l’area sociale alla quale si rivolgeva il giovane capellone e barbuto del film di Marco Bellocchio e quella rappresentata oggi dai partiti al governo. Non c’è bisogno di dimostrare che “FdI” è un partito che ha raccolto l’eredità del “MSI” e che sia “FI” che “Lega” sono l’attuale incarnazione dei vecchi partiti di centro e di sinistra che hanno governato l’Italia per tutta la cosiddetta “prima repubblica”. Il superamento della discriminante antifascista, auspicata nel comizio del 1972, è ormai avvenuto da tempo e le componenti politiche di una sorta di “maggioranza silenziosa” sono nuovamente insieme al governo. Di nuovo perché l’attuale non è certo il primo governo formato da quel tipo di maggioranza. Dal 1994 al 2011 si sono succeduti in continuità, salvo un breve intervallo i governi: Berlusconi I (1994), Berlusconi II (2001-2005), Berlusconi III (2005-2006) e Berlusconi IV (2008-2011) che hanno visto riuniti insieme sempre gli stessi partiti. Volendo trovare una differenza quelli precedenti si potrebbero definire governi di “centro-destra” e l’attuale potrebbe essere definito di “destra-centro”, solo per sottolineare che gli equilibri di quella coalizione si sono spostati a favore di un partito erede del fascismo storico.

Ma nel recente passato molti dei provvedimenti legislativi che hanno peggiorato le condizioni di vita dei più poveri non sono stati sempre adottati da governi di “centro-destra” ma piuttosto da quelli che si definivano di “centro-sinistra”: la deregolamentazione dei contratti di lavoro è iniziata con il cosiddetto “pacchetto Treu” preparato durante il Governo Dini (1995-1996) e portato a compimento dal Governo Prodi I (1996-1998). La riduzione delle tutele dei lavoratori, previste dall’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, è stata ottenuta attraverso il cosiddetto “Jobs Act” approvato durante il Governo Renzi (2014-2016). Solo per citare i due esempi più eclatanti.

Il peggio di sé questo governo non lo potrà dare nella politica estera, visto che si dovrà allineare (volente o nolente) al carro della NATO e nemmeno in quello economico, dove a comandare sono le solite istituzioni sovranazionali alle quali, chiunque sia al governo, deve obbedire. Andrà probabilmente peggio sul campo interno, dove potranno essere prese delle decisioni che hanno globalmente uno scarso impatto economico ma che possono provocare grossi danni sociali.

Il logoro e lugubre terzetto “Dio, Patria e Famiglia” (tutto con la maiuscola) verrà declinato in tutte le sue varianti, e ci sarà sicuramente un aumento della demagogia che fa comunque parte di ogni compagine governativa. Ma anche questo inossidabile terzetto verrà rivisitato in senso moderno e sarà quasi irriconoscibile rispetto a quello tradizionale per cui verrà fatto di tutto per rendere più difficile la scelta di interrompere una gravidanza ma difficilmente verrà abrogata la Legge 194. E probabilmente nemmeno il più accanito nostalgico del fascismo proporrà di eliminare la legge sul Divorzio che, alle origini, era uno dei principali obiettivi della battaglia della destra, in quanto minava la famiglia e andava contro l’indissolubilità del sacramento religioso del matrimonio.

Demagogia che già si è vista in azione a partire dalle nuove denominazioni dei Ministeri, come se bastasse cambiarne il nome per modificare qualcosa. Demagogia nei primi provvedimenti annunciati il cui impatto sarà molto più mediatico che concreto. In alcuni casi le differenze tra l’esecutivo in carica e quelli precedenti non sarà apprezzabile, proprio in questi giorni si legge della decisione di mantenere l’ergastolo “ostativo” (la legge secondo la quale un ergastolano non pentito non può accedere ad alcun beneficio) introdotta dal precedente governo e questo nonostante sia stata già definita la sua incostituzionalità. In altre parole probabilmente verranno confermate e/o peggiorate tutte le scelte già fatte da governi “antifascisti”.

Questo non significa che non ci siano differenze tra avere al Governo degli (ex) fascisti piuttosto che degli (ex) democristiani o degli (ex) comunisti, ma che le differenze tra le politiche portate avanti dagli schieramenti politici in Parlamento sono davvero minime e comunque ci sono sempre più punti in comune che punti divergenti tra “centro, destra e sinistra”.

Nei prossimi mesi il gioco delle parti vedrà la cosiddetta “opposizione” lanciarsi in molto poco credibili campagne per i “diritti sociali”, saranno esattamente gli stessi che quando erano al Governo hanno colpevolmente ignorato per anni, lasciando nel dimenticatoio provvedimenti come lo “ius soli”, il diritto a un degno fine vita e la liberalizzazione del consumo e della coltivazione della cannabis, giusto per citare i primi tre esempi che vengono in mente.

Dalla parte sua l’esecutivo in carica ha oggi, oltre che una maggioranza parlamentare abbastanza solida, anche la fortuna di avere una donna come capo di governo, cosa impensabile nella “maggioranza silenziosa” degli anni ’70, il che ha provocato anche una sorta di piccolo corto circuito culturale. Oltre alla scontata constatazione che, nonostante tutte le belle parole spese negli ultimi 50 anni dai partiti e dai movimenti di sinistra, la prima donna Presidente del Consiglio è cresciuta nell’ambiente delle formazioni studentesche di estrema destra piuttosto che in qualche collettivo femminista.

Il paragone con la vecchia “maggioranza silenziosa” è servito solo per segnalare che l’ideologia che sta dietro al nuovo governo non è poi così nuova come vogliono farci credere, ignorando colpevolmente la storia recente che ha visto i politici di “FdI” al governo in più di una occasione, anche se sotto altro nome. Questo non vuol dire che l’antifascismo debba andare in pensione, in quanto la vittoria elettorale del 2022 sicuramente sarà di stimolo ai più nostalgici del 1922 per provare a sollevare la testa magari sperando in una benevolenza da parte dell’autorità costituita, benevolenza che non è certo mancata fino a ieri, visto che a Predappio manifestano da anni.

Una delle differenze più evidenti tra il 1972 e oggi è che allora era molto diffuso, in campo lavorativo, politico e sociale, un movimento di ribellione con il quale dovevano fare i conti tutti i partiti e i governi, che reclamava – con tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti – più diritti per tutti e un radicale cambiamento sociale. Un movimento che oggi non c’è, nemmeno mettendo insieme tutte le varie e diverse esperienze di lotta che esistono. Un movimento che non può essere fatto rinascere basandosi esclusivamente sulla risposta emozionale agli allarmi antifascisti.

Libertà per Julian Assange

Nel corso del mese di ottobre di quest’anno ci sono state a livello mondiale, Italia compresa, numerose iniziative di protesta contro l’estradizione di Julian Assange che è detenuto dall’aprile del 2019 nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, nei pressi di Londra. Il governo britannico ha infatti deciso, a giugno 2022, di concedere l’estradizione richiesta dagli Stati Uniti che accusano Assange di vari reati tra i quali quello di spionaggio. Queste notizie non sono nascoste, ma non è certo un caso che siano collocate lontano dalle prime pagine e principalmente relegate negli spazi che si occupano di giornalismo e di comunicazione elettronica nonostante in passato la vicenda alla quale fanno riferimento ha occupato la ribalta mediatica per mesi.

Nel 2010, quando Wikileaks (fondato da Assange ed altri nel 2006) pubblicò sul web una serie di documenti riservati relativi alla politica statunitense e internazionale, lo fece con una azione concordata e coordinata con alcuni dei più importanti e diffusi quotidiani di tutto il mondo e il nome di Assange diventò famoso quanto quello di una rockstar. Il materiale diffuso riguardava soprattutto le guerre in Irak e Afganistan e migliaia di messaggi che si erano scambiati i diplomatici di tutti i paesi. La vicenda fu raccontata da tutti i mezzi di comunicazione del pianeta. Sempre nel 2010 la Svezia spiccò un mandato di cattura contro Assange a causa di alcune denunce per violenza sessuale e chiese la sua estradizione. L’accusato, che si proclamava innocente, si rifugiò nel giugno del 2012 nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra nella quale ha soggiornato fino al 2019 quando, venuta meno la protezione delle autorità diplomatiche, fu arrestato e condannato a 50 settimane di carcere per aver violato la libertà vigilata alla quale era sottoposto. Nel 2017 gli inquirenti svedesi hanno lasciato cadere le accuse di violenza sessuale in quanto ritenevano che fossero passati troppi anni dagli eventi denunciati ma, nel 2019, hanno annunciato di avere ripreso nuovamente le indagini sul caso.

Intanto, anche con Assange fuori gioco, il sito Wikileaks ha continuato a mettere in Rete materiali riservati e nel 2015 il suo archivio conteneva già più di dieci milioni di documenti.

Nel 2016 vennero pubblicati i cosiddetti “Yemen files”, e-mail e altro materiale prodotto dalle autorità statunitensi riguardanti la guerra in corso in quel paese e documenti sulla repressione seguita al fallito colpo di stato in Turchia. Nel 2017 fu la volta di file della CIA e informazioni riguardanti la sorveglianza digitale in Russia. Nel 2018 finirono su Internet i dati personali di alcuni impiegati della sezione del Ministero degli Affari Interni degli USA che si occupa della gestione degli immigrati e le carte relative a uno scandalo per tangenti che coinvolgeva un’impresa pubblica francese e gli Emirati Arabi Uniti. Nel 2019 vennero pubblicati documenti interni della “Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche” riguardanti la sua inchiesta su quanto avvenuto nell’aprile dello stesso anno nella città di Douma, in Siria. Nel 2021 fu la volta di 17mila file riguardanti due gruppi di estrema destra statunitensi.

Julian Assange, come si può facilmente capire leggendo la sua storia, riassunta anche in un film, non è un personaggio “facile” e sicuramente le sue contraddizioni possono renderlo estremamente simpatico o antipatico, per cui sarebbe meglio riflettere sul ruolo che ha avuto un progetto come Wikileaks all’interno della comunicazione elettronica e più in generale del sistema dell’informazione mondiale.

La digitalizzazione dei documenti e degli archivi permette oggi cose che fino l’altro ieri erano quasi impossibili; impossessarsi di nascosto di 400 mila documenti di carta, che sono più o meno il numero dei cosiddetti “Irak file”, e trasportarli da qualche parte sarebbe stato impossibile e per fare lo stesso con i “War logs”, che erano un numero sette volte maggiore, ci sarebbe voluto un supereroe. Tanto è vero che alcuni sostengono che gli apparati riservati dei vari governi hanno ripreso a tenere archivi di carta piuttosto che digitali.

A questa facilità di archiviazione e trasporto dei dati va aggiunta la possibilità di diffonderli facilmente, tramite Internet, in tutto il mondo e il fatto che, sempre utilizzando strumenti informatici, è possibile salvaguardare la sicurezza di chi rischia il carcere o la vita per rendere pubbliche informazioni che i governi hanno tutto l’interesse a mantenere segrete, come, per esempio, quelle persone che in queste settimane stanno mettendo a disposizioni di tutti le immagini e le notizie su quello che sta accadendo in Iran.

Non va però mai dimenticato che, sempre allo stesso modo, la tecnologia in uso viene utilizzata anche per diffondere la disinformazione degli stati e dei loro apparati e che è alla base di tutti i loro nuovi sistemi di controllo. Ma questo è qualcosa che è sempre avvenuto anche prima che i computer invadessero il mondo.

Julian Assange è diventato il simbolo di chi lotta per smascherare gli affari sporchi dei governi, così come Edward Snowden nel 2013 è diventato quello di chi ha rivelato i programmi e gli strumenti di controllo messi a punto dalla famigerata NSA, l’Ente statunitense incaricata del controllo della comunicazione mondiale. Snowden, accusato di reati molto simili a quelli a carico di Assange, dopo essere fortunosamente sfuggito all’arresto ha ottenuto nel 2020 la cittadinanza russa il che lo ha messo, almeno per il momento, al riparo dalla vendetta del governo degli USA. Secondo notizie, ovviamente non confermate, ai vertici della CIA si sarebbe discusso sulla possibilità di rapire o assassinare Assange. Attendibile o meno che sia questa notizia sta di fatto che rapimenti e omicidi ordinati e messi in atto da quella struttura non sono solo leggende metropolitane.

Allo stato attuale la sorte di Assange, che negli USA rischia una condanna fino a 175 anni di carcere, è legata da una parte a quello che farà o non farà il governo dell’Australia (suo paese di nascita) che potrebbe intralciare la procedura di estradizione ma che ancora non si è pronunciato ufficialmente e dall’altra all’appello presentato a luglio di quest’anno alla Corte Suprema inglese.

Contro l’estradizione si sono mosse, più di una volta, numerose associazioni per i diritti umani e per la libertà di informazione e migliaia di persone hanno partecipato a iniziative di sostegno.

Protestare contro l’estradizione di Assange significa impedire che egli faccia paradossalmente da capro espiatorio per aver reso pubbliche notizie che mostrano la criminalità di stati e governi. Significa difendere la libertà di chi, anche oggi e domani, abbia il coraggio di svelare i retroscena di quello che accade realmente dietro l’apparenza. Significa utilizzare una tecnologia invadente e spesso dannosa in modo diverso. Ma significa anche difendere il diritto alla comunicazione e informazione di tutti e tutte, anche di chi non ci crede.

Pepsy

[Pubblicato su “Umanità Nova”, n.25 del 30/10/2022]