Archivi autore: pepsy

L’astensionismo si addice agli anarchici

Nel 2003, in occasione del Referendum sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori fu pubblicato su “Umanità Nova” l’articolo che segue, non ricordo il numero preciso del settimanale e non ho voglia di cercarlo ma, visto che la penso ancora allo stesso modo, risparmio di riscrivere le stesse cose con altre parole.

L’astensionismo si addice agli anarchici

“L’astensione per noi è una questione di tattica; ma è tanto importante che, quando vi si rinunzia, si finisce col rinunziare anche ai principi. E ciò per la naturale connessione dei mezzi col fine.”
(E. Malatesta, Società autoritaria e società anarchica, L’Agitazione, 28 marzo 1897)

Uno dei luoghi comuni più abusati a proposito degli anarchici è quello che li presenta come degli inguaribili romantici legati a teorie e prassi antiquate. Tra i “segni” di questa attitudine viene spesso menzionato l’astensionismo, ritenuto dai critici una sorta di “sacro principio” verso il quale gli anarchici avrebbero una sorta di venerazione.

Fino a non molti anni fa tutti i partiti politici indicavano l’astensionismo come un comportamento da biasimare e, in diverse occasioni, non sono mancate anche delle vere e proprie campagne mediatiche contro la diserzione dalle urne. Da qualche anno a questa parte nessuno dei partiti demonizza più l’astensionismo che viene visto invece come una delle possibili opzioni disponibili nel quadro di una visione più pragmatica dell’agire politico.

L’astensionismo quindi non caratterizza più, o almeno non più come un tempo, esclusivamente l’antistatalismo anarchico.

Ma gli anarchici, contrariamente ai luoghi comuni, non rifiutano lo strumento del voto “in sé”, il nostro astensionismo infatti non è un immutabile principio, ma una precisa scelta tattica che riguarda principalmente il contesto all’interno del quale lo strumento del voto svolge la sua funzione.

Così l’astensionismo alle elezioni politiche è legato al rifiuto completo e definitivo del gioco partitico, del principio della delega in bianco e di una classe privilegiata quale è quella dei parlamentari e dei loro più stretti fiancheggiatori. Tale posizione ha sempre contraddistinto il movimento anarchico che ha continuamente rivendicato la propria estraneità alle tattiche machiavelliche del “fine che giustifica i mezzi”.

Stesso genere di approccio vale per i referendum che, solo apparentemente, sembrano diversi dalle altre consultazioni popolari. Anche in questo caso, infatti, non è tanto il meccanismo decisionale che viene rifiutato dagli anarchici, ma il fatto che si tratti di votazioni che si svolgono invariabilmente in un contesto statale, all’interno del quale anche tale strumento perde il suo valore potenzialmente “libertario” per acquistarne un altro esclusivamente funzionale al mantenimento dello status quo.

Del resto nelle riunioni anarchiche si ricorre normalmente alla votazione per esprimere un parere e nessuno si è mai scandalizzato di questa prassi proprio perché, a differenza di quanto accade nella società prigioniera, chiunque vinca non può poi costringere chi perde a sottomettersi alla decisione scaturita dal voto. Esattamente il contrario di quanto avviene in qualsiasi genere di consultazione, referendum compresi, nella quale la minoranza perdente è costretta a subire il risultato del voto.

Periodicamente, all’interno del movimento anarchico, vengono diffusi appelli al voto e, in diverse occasioni, il dibattito fra coloro che ritengono necessario recarsi alle urne e coloro che rivendicano l’astensionismo, si fa incandescente.

Così è stato nel 1972 quando “il manifesto” (allora un partito) presentò la candidatura di Pietro Valpreda e diversi compagni proposero un elettoralismo “tattico” per liberare dalla galera il compagno accusato di essere il responsabile della Strage di Stato di Piazza Fontana. Lo stesso è avvenuto, in seguito, in occasione di alcuni referendum particolarmente sentiti, come quello sul divorzio, sull’aborto, quello contro la caccia, quello per la depenalizzazione delle “droghe leggere”. Lo stesso accade oggi con il referendum sull’articolo 18.

In tutti i casi i compagni favorevoli al voto hanno usato argomentazioni simili: il referendum sarebbe diverso dalle elezioni politiche e la nostra partecipazione sarebbe esclusivamente una “tattica” che non inficia la nostra strategia antiparlamentare. Altra motivazione è quella della “centralità” della scadenza, come se tale ragione non potesse essere adoperata in quasi tutte le altre occasioni di voto. In alcuni casi si è sottolineato come un voto “tattico” sia necessario per mantenersi in relazione con determinati settori sociali ma ci si è dimenticati che quella scelta potrebbe provocare, contemporaneamente, la rottura delle relazioni con altri settori della società.

L’errore di chi propone il voto sta proprio in questa pretesa di indirizzare il movimento verso una prassi che considera centrale il fatto di “esserci”, di “partecipare” per non restare esclusi da un gioco che non è certamente il nostro. A queste motivazioni spesso si aggiunge quella di scegliere il “male minore”, come se – passando dalla padella alla brace – cambiasse il risultato finale.

Gli anarchici astensionisti e quelli favorevoli al voto sono accomunati dalla convinzione di considerare le loro rispettive posizioni delle “tattiche” che però – per ovvie ragioni – difficilmente possono convivere all’interno dello stesso movimento in quanto puntano verso strade completamente divergenti.

Fino a quando la società non sarà liberata, quasiasi occasione di voto, referendum compresi, non sarà altro che uno degli strumenti usati dal capitalismo e dallo stato per consolidare il proprio potere. Anche per questa ragione la scelta della tattica astensionista è quella che, ancora oggi, maggiormente si addice agli anarchici.

Madamina il catalogo è questo

L’articolo pubblicato il 5 giugno 2022 sul “Corriere della Sera” e tutto quello che poi è seguito meriterebbe una attenta e seria analisi in quanto presenta molti spunti interessanti per chi si interessa di informazione, comunicazione e libertà di parola.

Quello che segue è invece solo il frutto di una mezza idea post-prandiale.

Le azioni degli esseri umani hanno sempre una motivazione, se si escludono i riflessi automatici anche comportamenti apparentemente inspiegabili possono essere spiegati, magari ricorrendo a particolari categorie: un gesto dettato dalla follia, dall’ignoranza, dalla vendetta, eccetera.

Visto che una motivazione ci deve essere ci si chiede perché qualcuno abbia fornito alle giornaliste del CdS quel testo. Partiamo ovviamente dal presupposto, che riteniamo ragionevolmente vero, che qualcuno abbia fornito un testo e non che questo sia stato inventato di sana pianta da chi ha firmato l’articolo.

Alcune premesse necessarie:

– per “testo” si intende lo scritto che è stato utilizzato per scrivere l’articolo sul “Corriere della Sera” e NON l’articolo stesso.

– le varie motivazioni elencate sono state scritte di seguito ma poi sono state numerate e sottoposte a un “sorteggio” che ha definito l’ordine con il quale compaiono. Questo per dire che non c’è una particolare ragione, a parte il caso, per cui una motivazione compaia prima o dopo un’altra.

– ribadiamo che la veridicità delle affermazioni contenute nel testo, il ruolo delle persone citate e tutto il resto non ci interessano.

– questa lista non ha la pretesa di essere esaustiva per cui potrebbero esservi aggiunte altre motivazioni.

– dovrebbe essere ovvio (ma non si sa mai…) che alcune delle motivazioni elencate potrebbero combinarsi tra di loro in quanto ci può essere più di una ragione per fare una cosa.

– si potrebbe seguire lo stesso esercizio per provare a elencare le motivazioni che in seguito hanno portato alla desecretazione del testo.

– non abbiamo (ancora) letto il testo desecretato.

Ecco quindi “la lista”:

Il testo l’ha fornito uno o una al fine di lanciare un avvertimento alle persone elencate nella lista: state attente, vi teniamo d’occhio!

Il testo l’ha fornito uno o una che in cambio ha avuto un corrispettivo economico o che se ne aspetta uno in futuro.

Il testo l’ha fornito uno o una per uno studio sul funzionamento della comunicazione in Italia in tempo di guerra.

Il testo l’ha fornito uno o una che aveva un particolare interesse a far diventar famoso una delle persone elencate nella lista.

Il testo l’ha fornito uno o una che non approvava il contenuto e/o le motivazioni del testo, al fine di rendere pubblico un documento segreto.

Il testo l’ha fornito uno o una al fine di lanciare un avvertimento alle persone elencate nella lista e a tutti quelli che hanno espresso o potrebbero esprimere posizioni simili: state attente, vi teniamo d’occhio!

Il testo l’ha fornito uno o una che voleva far colpo su una o tutte e due le giornaliste.

Il testo l’ha fornito uno o una a fini di disinformazione: costruire una copertura per un* agente doppi*.

Il testo l’ha fornito uno o una per mettere in imbarazzo i servizi, il Governo e/o qualche partito o esponente politico.

Il testo l’ha fornito uno o una per qualche non meglio conosciuta ragione sentimentale. Ah, l’amour!

Il testo l’ha fornito uno o una nell’ambito delle iniziative di propaganda di guerra delle autorità italiane.

Il testo l’ha fornito uno o una a fini di disinformazione: far credere ad altri servizi segreti che sia questo il livello di quelli italiani.

Il testo l’ha fornito uno o una nell’ambito di una faida interna ai servizi segreti.

Il testo l’ha fornito uno o una che approvava il contenuto e/o le motivazioni del testo, al fine di renderlo pubblico per dargli maggior risonanza.

Il testo l’ha fornito uno o una a fini di disinformazione: far sapere ai servizi segreti russi che le loro “spie” sono state scoperte.

Il testo l’ha fornito uno o una per far venire allo scoperto altre persone che la pensano come quelle inserite nella lista.

Il testo l’ha fornito uno o una per mettere in imbarazzo il “Corriere della Sera” e/o una o tutte e due le giornaliste.

[segue?]

 

 

 

 

Propaganda anti-anarchica

Due sono le cose che infestano la comunicazione elettronica in Rete: le foto dei gattini e i “meme” a questi va aggiunta, in tempi di guerra, la comunicazione delle parti in causa nel confitto che, in ogni caso, è sempre propaganda di guerra.

Se sui gattini non c’è bisogno di spendere molte altre parole cosa siano i “meme” forse va spiegato ai pochi che ancora non lo sanno. In generale viene definito “meme” un qualcosa che si diffonde da persona a persona all’interno di un determinato ambito, per cui in alcuni casi la diffusione può essere ristretta ad una piccola cerchia di persone e in altri allargata a dismisura.

Su Internet i “meme” hanno – di solito – la forma di immagini (foto, filmati o disegni) che nella maggior parte dei casi sono riprese da qualcosa di pre-esistente mentre in altri sono create ex-novo. A queste immagini vengono a volte aggiunti testi che dovrebbero dargli uno specifico significato. Molto spesso un “meme” originale viene modificato, magari più e più volte, facendogli assumere anche significati diversi da quello iniziale.

Quelli che oggi sono conosciuti come “meme” non sono una invenzione originale, basti ricordare i “ready-made” dei surrealisti che sono vecchi più di un secolo o in tempi relativamente più recenti, i “detournement” dei situazionisti. In entrambi i casi i personal computer e la Rete non esistevano e quindi forse l’unica differenza sta nella veloce ed enorme diffusione che oggi ha questo tipo di comunicazione. Proprio per quest’ultima ragione non sorprende che la propaganda di guerra la utilizzi ampiamente.

Tra i tanti “meme” che circolano da quando l’esercito russo ha invaso l’Ucraina, ne abbiamo incontrato uno dedicato esplicitamente agli anarchici. Si tratta, in questo caso, di una immagine pre-esistente; i programmi che cercano su Internet le immagini simili fanno risalire la sua prima apparizione almeno al 2017.

L’originale è composto da 4 vignette, senza parole, che raccontano una storia caratterizzata da quello che si potrebbe definire “umorismo nero”, ovvero il tentativo di far ridere raccontando storie che affrontano argomenti seri.

Nella prima vignetta c’è una mano aperta che emerge dall’acqua, nella seconda si vede una seconda mano che si avvicina alla prima, nella terza la mano che si stava avvicinando “batte il cinque” con quella che emerge dall’acqua e nella vignetta finale compaiono solo le dita della mano immersa nell’acqua.

Non c’è bisogno di un dottorato in semiologia per comprenderne il significato: davanti a una persona in pericolo (probabilmente sta affogando) invece che salvarla (afferrandole la mano) si preferisce un gesto inutile (“battere il cinque”) e questo causa la morte della persona.
Fa ridere? Non fa ridere? Ognuno decida per conto proprio perché, in questo contesto, non interessa il “meme” originale ma una sua versione modificata che sta circolando da qualche tempo anche su siti in lingua italiana.

L’immagine originale è stata modificata apponendo delle scritte in inglese: nella prima vignetta sulla mano che emerge dall’acqua c’è scritto “UKRAINIAN ANARCHIST” (anarchici ucraini), nella seconda sulla mano che si avvicina c’è scritto “WESTERN ANARCHISTS” (anarchici occidentali), nella terza sulle mani che “battono il cinque” c’è la scritta “NOT WAR BUT CLASS WAR COMRADE LOL” (no guerra ma guerra di classe compagno LOL), sulla vignetta conclusiva non compaiono scritte. Forse conviene ricordare che “LOL” è un acronimo usato da sempre su Internet che significa “laughing out loud” (ridendo a crepapelle).

Anche in questo caso il significato del “meme” è alquanto chiaro. Si tratta di una accusa, molto pesante, agli “anarchici occidentali” che, davanti alla tragedia della guerra in Ucraina, si limiterebbero a riproporre uno slogan (“no guerra ma guerra di classe”) causando la morte degli “anarchici ucraini”.

Anche se piacerebbe saperlo, nessuno ha firmato questo “meme” ma chiunque sia stat* ha realizzato qualcosa che si può definire come “propaganda anti-anarchica” e questo perché NON esiste una posizione comune di tutti gli anarchici  e tantomeno di quelli “occidentali” a proposito della guerra in Ucraina. Ci sono infatti, all’interno del movimento anarchico, posizioni che sono più vicine a quelle degli “anarchici ucraini” e posizioni che sono più lontane dalle scelte che hanno fatto. Basta un minimo di onestà intellettuale e la lettura di quello che è stato pubblicato sui siti anarchici negli ultimi tre mesi per verificarlo.

Chi ha creato il “meme” in questione ha invece esplicitamente mosso una accusa collettiva, una accusa rivolta a tutto il movimento anarchico o almeno a quello definito “occidentale”. E quindi si tratta di “propaganda anti-anarchica”, qualsiasi fossero le intenzioni di chi ha creato il “meme”. A meno di credersi depositari* unic* dell’idea anarchica o della “giusta linea” da seguire e questo sarebbe anche peggio.

Si tratta, con ogni evidenza, oltre che di “propaganda anti-anarchica” anche di propaganda di guerra, una comunicazione che si caratterizza sempre per la sua “binarietà”: con noi o contro di noi, amici-nemici, alleati-avversari, buoni-cattivi, ecc… e che viene da sempre utilizzata ampiamente da tutte le parti coinvolte in un conflitto armato.

L’immagine non viene pubblicata in quanto, proprio perché si tratta di “propaganda anti-anarchica”, sarebbe un controsenso aumentarne la visibilità.