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Autistici/Inventati. Un compleanno r-esistente

Anno di ricorrenze questo 2021, una concentrazione – almeno per gli anarchici – davvero affollata: dalla Comune di Parigi (1871) all’insurrezione di Kronstadt (1921), dalla morte di Pëtr Alekseevič Kropotkin (1921) a quella di Pietro Gori (1911), solo per citare gli anniversari più conosciuti. Peccato che la situazione attuale impedisca di ricordare degnamente avvenimenti e persone e che ci costringa a tristi celebrazioni fatte per via elettronica, un ripiego che non ha molte alternative. Per fortuna, per questo genere di iniziative non siamo costretti a usare gli strumenti gestiti dai giganti del profitto. Aziende che oltre a lucrare sui nostri dati sono complici della sorveglianza elettronica di massa, ma possiamo usare quelli messi a disposizione da realtà molto più compatibili con le nostre idee.
Una di queste realtà è “Autistici/Inventati” (A/I) che a marzo 2021 raggiunge il traguardo dei venti anni di attività, un risultato di tutto rispetto in un ambito, come quello della Rete, dove le meteore prevalgono sui pianeti, una storia che vale la pena di ricordare in questa occasione.
Un libro [*] ha già raccolto il racconto dell’inizio e dei primi anni di funzionamento di questo collettivo che non ha mai avuto una sede fisica ed è gestito quotidianamente da persone che vivono e lavorano in paesi e continenti diversi. A/I è il risultato concreto dei contatti e dei rapporti che si sono sviluppati verso la fine degli anni ’90 del secolo scorso tra alcuni che partecipavano alle esperienze dei primi “Hacklab”, soprattutto a Milano e altri che avevano iniziato a fare informazione indipendente nell’ambito dei Centri Sociali fiorentini e insieme a questi altri, quasi tutti provenienti da qualcuna delle tante aree di “movimento” di quegli anni.
Un collettivo del genere non poteva certo spuntare dal nulla. Le precedenti esperienze dei circuiti di BBS (bacheche elettroniche) italiane alternative come European Counter Network e CyberNet, la storia di “Isole nella Rete” che è stato il primo “server di movimento” e il nascente progetto degli “Hackmeeting” hanno sicuramente svolto un ruolo importante, direttamente e indirettamente, nella nascita di questo progetto. A sottolinearne le origini va ricordato che una buona parte della storia iniziale di A/I si sovrappone e quasi si confonde con quella legata alla creazione del nodo italiano di Indymedia e soprattutto ai suoi primi anni di funzionamento.
Il primo server della neonata associazione venne collegato in rete tra il marzo e l’aprile del 2001 e subito il collettivo di gestione iniziaò a fornire i primi indirizzi e-mail, ad aprire le prime liste di discussione, a ospitare i primi siti web. La presentazione “ufficiale” del progetto avrà come palcoscenico l’Hackmeeting di Catania nel giugno dello stesso anno.
Rimandiamo al libro citato quelli interessati a conoscere i dettagli (almeno quelli principali) dei primi dieci anni di una storia resistente punteggiata da sequestri dei server e da denunce affrontate sempre con una leggerezza spavalda che viene dalla convinzione di stare facendo la cosa giusta.
Il racconto nel libro si ferma alla fine del 2011, quando gli utenti di A/I sono già più di 10 mila e non sono solo italiani.
Nel suo secondo decennio di attività il collettivo ha continuato nel suo lavoro che consiste nel tenere aggiornata l’infrastruttura tecnica, che attualmente è formata da una serie di server sparsi in diversi paesi, e per migliorare il funzionamento dei servizi esistenti e fornirne di nuovi. Questi ultimi vengono sempre resi disponibili dopo una discussione interna che ne valuta l’utilità sia dal punto di vista politico che la sostenibilità tecnica ed è anche accaduto, a volte, che qualcuno dei servizi attivati sia poi stato eliminato, come (per esempio) è successo con il “Virtual Private Network” (VPN) aperto nel 2012 e chiuso qualche anno più tardi.
Nel 2013, dopo le rivelazioni di Edward Snowden sulle tecniche usate negli USA e in tutto il resto del mondo per spiare la comunicazione elettronica, le richieste di servizi hanno inondato A/I che è stata costretta per qualche giorno a bloccare tutte le nuove richieste. Il numero di utenti intanto ha continuato a crescere, a fine 2013 si contavano: 17500 caselle di e-mail, 5500 blog, 3200 mailing list, 1800 siti web.
Nel corso del 2015, proseguendo nel miglioramento della sicurezza, A/I ha implementato l’autenticazione a due fattori mentre risale a metà di settembre del 2017 il più grave degli incidenti possibili in una struttura informatica, ovvero la violazione dell’account di un amministratore, il primo in sedici anni. Quest’ultimo avvenimento e lo stillicidio di richieste provenienti dalle autorità di polizia di molti paesi che chiedono di conoscere i dati degli utenti o di censurare il contenuto di blog e siti hanno portano il collettivo di gestione a reagire non solo sul piano tecnico.
Negli ultimi tre anni la struttura tecnica dei server di A/I è stata modificata per renderla più resistente e parallelamente l’Associazione è riuscita a farsi riconoscere come “associazione di volontariato”, scoprendo che le leggi sono così stupide da chiedere a una associazione nella quale non ci sono dipendenti pagati ma solo volontari di avere diverse decine di migliaia di euro sul conto bancario per ottenere questo genere di riconoscimento. L’aspetto positivo è che adesso si può donare il 5 per mille tramite la dichiarazione dei redditi (Modello CU Unico e 730) usando il codice fiscale 93090910501.
Per sostenere concretamente le assemblee e le iniziative di gruppi e collettivi che sono stati costretti a utilizzare maggiormente la Rete a causa delle misure di contenimento della pandemia A/I ha messo a disposizione due nuovi servizi: una piattaforma per videoconferenze e un server per trasmettere in Rete in tempo reale contenuti audio-video. Come sempre i due servizi sono gratuiti e garantiscono la riservatezza di chi li adopera, al contrario di quelli sicuramente più usati ma che sono gestiti da imprese a scopo di lucro. Alla fine del 2020, dopo l’eliminazione di quelli inattivi, si contavano 11500 indirizzi e-mail, 14000 blog, 6000 mailing list e 1100 siti web ancora funzionanti.
Nel corso degli anni, alcune ed alcuni di quelli che hanno fatto parte del collettivo di gestione lo hanno lasciato, ma sono anche subentrate altre ed altri. Si inzia anche notare un divario di età nel gruppo che, nonostante tutto, fa ben sperare per il futuro.
Sappiamo che il tempo su Internet si misura diversamente che nella vita reale e che venti anni sono davvero tanti ma siamo sicuri che A/I continuerà a r-esistere ancora, all’indirizzo https://www.autistici.org

Pepsy

[*] Autistici & Inventati, “+kaos. 10 anni di hacking e mediattivismo” (a cura di Laura Beritelli), Agenzia X, 2012.

Perché i computer non domineranno (ancora) il mondo

Anche il prossimo governo farà dichiarazioni, più o meno roboanti, sulla necessità di digitalizzare il digitalizzabile e anche di più. Sull’importanza delle reti veloci, sulla diffusione delle tecnologie informatiche e, soprattutto, sulla transizione delle Amministrazioni Pubbliche verso… indovinala un po’? Il digitale, sempre quello.

Come tutti quelli che lo hanno preceduto il nuovo governo probabilmente lascerà intatto tutto il caos normativo sull’amministrazione digitale che nemmeno le ripetute e sempre più cervellotiche versioni del famigerato “CAD” (che non sta per ComputerAided Design/Drafting) ma per “Codice dell’Amministrazione Digitale” è mai riuscito a sbrogliare.

E, ci scommettiamo, che anche la prossima piattaforma on-line verrà presa d’assalto e crasherà senza che nessuno abbia lanciato un attacco DOS (“Denial-of-service” attack). Ma anche questa non è una notizia.

Il fatto è che, nonostante pochi lo facciano notare, le carenze che spesso vengono attribuite esclusivamente alle Amministrazioni Pubbliche sono invece una situazione molto più diffusa e che riguarda anche le società private e non solo quelle che hanno bilanci annuali da circolo ricreativo.

Un esempio, tratto da una esperienza personale.

Il mio SPID, la mitica identità elettronica, una delle tante identità elettroniche che è possibile avere visto che le norme lo prevedono (ho scritto già che sono caotiche?) è gestito da una società privata che – ovviamente – persegue fini di lucro.

Di passaggio noto che è alquanto bizzarro che la mia identità, che viene certificata dallo Stato, venga poi gestita da un soggetto privato, ma questo fa parte di quelle insondabili decisioni che sono invariabilmente generatrici di ulteriore, come dire… caos.

Il gestore dello SPID che uso (*) recentemente mi ha gentilmente avvisato che devo aggiornare i miei documenti perché la Carta di Identità che avevo usato per la registrazione è scaduta.

Se non lo avessi fatto già prima noterei che se a gestire la mia identità digitale fosse una struttura pubblica piuttosto che un privato non ci sarebbe bisgogno di nessun avvertimento in quanto chi gestirebbe lo SPID avrebbe direttamente accesso al mio documento di identità aggiornato, visto che viene rilasciato addirittura tramite un Ente Pubblico.

Mi preparo ad aggiornare il mio documento scansionando (sic!) una CIE, che sta per “Carta di Identità Elettronica” e non per “Centro di identificazione ed espulsione”, con tanto di CHIP, PIN, Codice a Barre e magari anche qualche altra cosa segreta della quale non sono a conoscenza.

Carico il file, in formato jpg, sul sito del gestore dello SPID e il giorno dopo ricevo questo e-mail.

Qualche giorno dopo, ricevo una seconda e-mail.

Peccato che non vengono fornite informazioni su cosa abbia causato gli “errori” in questione, rendendo difficile cercare una soluzione soprattutto per quelli come me che si sono persi il corso di telepatia e non hanno mai frequentato quello preveggenza.

Per la cronaca, ho provato (altre due volte) a completare la procedura di aggiornamento e il risultato è stato sempre lo stesso. Ho provato anche quella che sul sito di assistenza chiamano “chat”, che in realtà è un “bot” – no, non sono i “Buoni Ordinari del Tesoro” – di quelli che sanno rispondere solo ad una certa serie di domande pre-definite e che al loro confronto Eliza (Weizenbaum, 1966) è una AI che ha superato in scioltezza il Test di Turing.

Questa situazione però, invece che gettarmi nello sconforto mi crea invece un senso di contentezza in quanto, almeno per un altro bel po’ di tempo, i computer non domineranno il mondo e la digitalizzazione delle nostre esistenze provocherà più casino che altro e scusate se mi contento di così poco.

I computer non domineranno il mondo e la transizione al digitale non avverrà a breve, ma romperanno comunque le scatole, temo.

La prossima puntata sarà dedicata a un altro fornitore di identità, anche in questo caso (attenzione, spoiler!) non sono riuscito a venirne a capo…

 

 

(*) In realtà ho più di una identità SPID, ma questo è un altro discorso.

 

 

Aaron Swartz. La conoscenza per tutti

La scorsa settimana in molti hanno ricordato il suicidio di Aaron Swartz avvenuto l’11 gennaio 2013, due giorni dopo che era stata respinta una istanza presentata dai suoi legali per evitargli una condanna che poteva arrivare fino a 35 anni di carcere e 1 milione di dollari di multa.

La sua biografia sembra proprio quella del piccolo genio informatico che a 13 anni vince un premio di mille dollari per un progetto di una biblioteca collaborativa on-line, frequenta Atenei prestigiosi come Harward e la Stanford University, è coinvolto nella creazione di strumenti di programmazione usati ancora oggi e nello sviluppo di start-up commerciali. A leggerla sembra essere la classica storia di una persona destinata a mettere in piedi un progetto che lo renderà ricco e famoso prima dei trenta anni. Ma la vita di Swartz ha un finale diverso, probabilmente anche a causa della sua sensibilità ai problemi sociali, una caratteristica che non sempre si associa alle menti brillanti.

Nel 2007, chiamato a tenere una conferenza presso il NIT di Calcutta, aveva intitolato il suo intervento “Come fare a trovare un lavoro come il mio” e così rispondeva alla sua stessa domanda:
“E allora, in che modo sono arrivato a una occupazione simile? Indubbiamente, il primo passo è dotarsi dei geni giusti: sono nato bianco, di sesso maschile, statunitense. La mia famiglia era benestante e mio padre era già coinvolto nell’industria informatica. Sfortunatamente, non conosco nessun modo per poter scegliere queste cose, quindi non è di grande aiuto.” [1]

La coscienza di essere un privilegiato invece che spingerlo verso lo sfruttamento egoistico del suo status lo ha portato, fin dall’inizio, a indirizzare il suo agire verso la condivisione della conoscenza una attitudine che ha segnato anche l’episodio all’origine della sua drammatica fine. A partire dal 2008 si è sempre impegnato in qualche iniziativa a favore della libertà di informazione e della condivisione della conoscenza. Impegno non solo teorico ma concreto, partecipando direttamente o con altri alla creazione di numerosi progetti legati all’attivismo digitale.

Dai documenti relativi al suo processo risulta che Aaron Swartz aveva collocato un computer all’interno di un ripostiglio del “Massachusetts Institute of Technology” (MIT) e lo aveva connesso alla rete dell’Istituto. Aveva programmato quel computer in modo che scaricasse automaticamente dalla Biblioteca digitale “JSTOR” [2] i file di articoli scientifici disponibili solo agli utenti interni. I proprietari della Biblioteca dichiararono che, tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, vennero scaricati circa 3 milioni e mezzo di file prima che Aaron venisse arrestato e il computer spento.

Una delle ragioni dell’accanimento giudiziario contro l’autore di questo “reato” è dovuto sicuramente alle leggi che proteggono l’enorme giro di affari che sta dietro, ieri come oggi, al mercato delle pubblicazioni scientifiche in formato elettronico. Una fonte di profitto quasi invisibile ai non addetti ai lavori.

Nel 2021, una qualsiasi istituzione (Università, Biblioteca, Laboratorio) che voglia dare la possibilità di accesso ai propri utenti a libri o riviste scientifiche in formato elettronico deve firmare contratti per abbonamenti che costano anche centinaia di migliaia di euro all’anno. Gli editori che pubblicano in formato digitale sono più di uno e quindi le cifre che vengono spese in questo settore arrivano anche a milioni di euro all’anno e non tutte le istituzioni, soprattutto quelle dei paesi più poveri, possono permettersi di sostenerle.

Aaron Swartz sapeva bene che “l’informazione è potere” [3] e nella sua breve e intensa vita si è sempre adoperato per contrastare la “privatizzazione” del sapere che, in campo scientifico, significa anche costringere nell’ignoranza chi, impegnato nella ricerca della conoscenza, non ha le risorse economiche per accedere ai risultati delle ricerche internazionali. Non a caso Swartz ha collaborato alla creazione delle specifiche dell’RSS [4] e alla creazione delle “Creative Commons Licenses” [5], due risorse importanti per coloro che lottano per la condivisione della conoscenza senza fini di lucro.
Anche grazie al suo impegno e alla sua lotta, insieme a quella di altri e altre meno noti, oggi anche le più tradizionali istituzioni hanno iniziato a occuparsi – in modo più o meno serio – di “accesso aperto” e questa tendenza si è talmente estesa che i padroni del “copyright” hanno persino inventato dei meschini sotterfugi per continuare a mantenere le loro posizioni di potere economico. Per fare un esempio negli ultimi anni i grossi editori di pubblicazioni elettroniche hanno iniziato a proporre ai loro clienti i cosiddetti “contratti trasformativi” che avrebbero lo scopo di permettere la transizione del sistema di comunicazione scientifica da “chiuso” ad “aperto” (sic). Questo genere di contratti però si applicano solo ad alcune categorie di riviste. Questo ha provocato (non ne dubitavamo) un aumento dei guadagni per gli editori: se una Università è abbonata a una rivista che prevede l’accesso libero ad alcuni degli articoli disponibili dovrà pagare, oltre che il costo dell’abbonamento, anche una cifra (non simbolica) per ognuno degli articoli che deciderà di rendere disponibili a tutti. In altre parole pagherà due volte per lo stesso articolo. Molte, se non forse tutte sicuramente la maggior parte delle Biblioteche delle Università italiane sono cascate in questa trappola.

L’ALA (“American Library Association”) quattro mesi dopo la morte, assegnò a Swartz il premio “James Madison” un inutile riconoscimento alla memoria di un giovane che aveva avuto il coraggio di praticare quello che altri, ma solo a parole, ritengono un diritto di tutti.

Aaron Swartz ha lasciato una eredità, che pesa come un macigno soprattutto su coloro che oggi si riempiono la bocca blaterando di “accesso libero” alla conoscenza, sperando di continuare a mantenere le proprie quote di fatturato.

A noi ha lasciato il compito di continuare la sua lotta.

Pepsy

 

Riferimenti

[1] Il link http://aaronsw.jottit.com/howtoget dove era archiviato il discorso citato al momento (11 gennaio 2021) sembra off-line, una copia la si può comunque trovare cercandolo sull’Internet archive.

[2] “JSTOR è una biblioteca digitale fondata nel 1995 a New York. In origine conteneva copie digitalizzate di vecchie annate di riviste accademiche. Oggi contiene anche libri e pubblicazioni correnti. A questo archivio accedono migliaia di istituzioni da più di 160 paese, nella maggior parte dei casi pagando un abbonamento, esiste anche una parte dell’archivio ad accesso libero. Nel 2015 le entrate della biblioteca sono state di 86 milioni di dollari” (vedi https://en.wikipedia.org/wiki/JSTOR)

[3] La frase è all’inizio del suo “Guerrilla Open Access Manifesto” leggibile qui https://aubreymcfato.com/2013/01/14/guerrilla-open-access-manifesto-aaron-swartz/

[4] RSS (sigla di RDF Site Summary) è uno dei più popolari formati per la distribuzione di contenuti Web (vedi https://it.wikipedia.org/wiki/RSS).

[5] Le “Licenze Creative Commons” sono delle licenze riguardanti il “diritto d’autore” indirizzate in senso contrario all’esclusiva monetarizzazione (vedi https://it.wikipedia.org/wiki/Licenze_Creative_Commons).

 

Pubblicato su “Umanità Nova“, n.2 del 31/01/2021