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Polvere di (5) stelle

La domanda è come faccia il M5S a resistere, ancora, allo stato apparentemente caotico del comportamento dei suoi parlamentari. Tra dimissioni, espulsioni e migrazioni sembra di assistere a un fuggi-fuggi da naufragio anche se meno affollato di quanto lo presentino i media ufficiali.
Forse l’unica risposta è che questa resistenza è strettamente connessa al patchwork ideologico che lo ha caratterizzato fin dalla nascita, un miscuglio di idee vecchie e nuove tenute insieme all’inizio da una figura carismatica alquanto anomala e successivamente, quando si è trattato di andare sul concreto, da una maggioranza di dilettanti allo sbaraglio facilmente controllabili da piccoli gruppi di interesse (interni ed esterni) più o meno nascosti.
Gli eletti del M5S siedono in parlamento dal 2013 e nelle elezioni del 2018 sono diventati il primo partito e parte maggioritaria di una coalizione governativa con la Lega. Anche se nelle elezioni amministrative e in quelle europee tenutesi successivamente il M5S ha ottenuto risultati quasi sempre inferiori, spesso di molti punti, rispetto a quelli nazionali.
Al momento della sua comparsa sulla scena della politica il M5S rappresentava sicuramente una incognita non facilmente risolvibile all’interno delle storiche categorie politiche italiane e poteva essere considerato, da un certo punto di vista, come un ulteriore elemento di instabilità in un sistema da tempo in precario equilibrio tra due schieramenti politici, ormai quasi completamente simili tra di loro. Il vantaggio del M5S rispetto ai “vecchi” partiti è stato quello di fornire, in modo platealmente evidente, uno sbocco istituzionale ai sempre più diffusi sentimenti anti-politici ed anti-partitici degli elettori. Bisogna dare atto al M5S che è riuscito a spacciare come moderna la tattica di una “rivoluzione dall’interno” che risale alla notte dei tempi della politica e addirittura forse ci sono persone ancora convinte che il M5S sia all’avanguardia delle tecnologie informatiche nonostante una semplice ricerca su Internet porterebbe alla luce tutti gli “infortuni digitali” (alcuni anche tragicomici) nei quali è incorso il movimento nei suoi oltre dieci anni di vita.
Nonostante le pretese di novità e di diversità, in questi anni il M5S ha brillato soprattutto per aver adottato nella gestione delle cose interne dei metodi che somigliano molto più a quella di un classico partito leninista piuttosto che a quello di un “movimento” nato dal basso. Dal sistema leaderistico su base elettronica alla pagliacciata del “mandato zero”, è stato un susseguirsi di svolte, aggiustamenti in corso d’opera, inversioni a U spericolati conditi da una serie di atti concreti che sono andati troppo spesso in direzione esattamente contraria a quelle che erano le basi fondanti, come dimostrato dalla penosa sceneggiata sul TAV.
Una delle ragioni della resistenza la si trova nella natura da “supermarket” del M5S, una ampia scelta ideologica all’interno della quale (quasi) chiunque può trovare qualcosa di suo interesse e nella sua base elettorale costituita principalmente da elettori delusi dagli altri partiti e in piccola parte anche da aree contigue ai movimenti sociali.
Ma, da quando ha vinto le elezioni, il M5S sembra che le stia sbagliando tutte.
Non avendo i numeri per governare da solo ha riprodotto il più classico dei “modus operandi” della politica, ovvero si è alleato con un partito numericamente molto più piccolo e reduce da sconquassi interni con pesanti ricadute giudiziarie. Facendo questo però ha alzato la posta in gioco. La scommessa di riuscire a mantenere tutte le promesse elettorali e la leggenda di un “movimento nato dal basso” si è rumorosamente infranta contro la dura realtà delle cose. Lo sdegnoso rifiuto di comparire sui mass-media ufficiali dei primi tempi si è trasformato in una alluvione di presenzialismo sia dei leader del M5S sia dei rappresentanti meno noti che hanno mostrato tutte le contraddizioni esistenti all’interno del “supermarket”. L’area mediatica dove il M5S ha tenuto è stata quella legata ai “social”, sostenuta da una consistente base di consenso di attivisti da tastiera, ma viziata in modo evidente da una visione della realtà del tutto fittizia, dove la diffusione di veri e propri tormentoni e di “bufale informatiche” ha sostituito quasi del tutto un qualsiasi tipo di ragionamento critico.
Il passaggio da un governo con la Lega a uno con il PD è stato sicuramente un punto di svolta non tanto per la politica italiana ma per l’intero M5S che difficilmente riuscirà a proporsi di nuovo come un movimento “anti-sistema”. Anche se le prossime scadenze elettorali sono a carattere locale, una ulteriore perdita di consensi per il M5S potrebbe rivelarsi un nuovo ostacolo e viene da sorridere pensando quanto l’esistenza di una forza politica nata con l’intento di ribaltare il vecchio sistema adesso dipenda dal numero di voti che riuscirà a prendere alle prossime elezioni.
Del resto un movimento politico fondato da un comico che sparisce nel ridicolo è un finale quasi affascinante.

Indymedia. Celebrazione minima non autorizzata

1. Seattle

Qualcuno potrebbe credere che la grande fortuna di Indymedia ((i)) sia stata quella di essere nata al posto giusto e nel momento giusto: nel 1999 a Seattle (USA) durante le proteste contro una riunione del WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio), due giorni di manifestazioni e scontri che portarono il Sindaco della città all’applicazione della legge marziale e che si conclusero con più di 600 arresti.

indymedia logoMa il termine “fortuna” è sicuramente sbagliato in quanto sia ((i)) che il cosidetto movimento “no-global” non sono spuntati all’improvviso dal nulla, poiché già da diversi anni piccole e grandi manifestazioni venivano organizzate localmente in occasione di incontri politici internazionali. E, fin da prima del 1995, la Rete Internet è stata usata, soprattutto attraverso le BBS, la posta elettronica e le mailing list per discutere, diffondere informazioni, coordinare e organizzare iniziative. Alla fine degli anni ’90 del secolo scorso il web era già abbastanza diffuso e il terreno quindi più che fertile per far nascere il progetto di un mezzo di comunicazione indipendente. Il successo di ((i)) è quindi più che annunciato, anche se i mass media ufficiali ci metteranno qualche anno a rendersene conto.

Subito dopo la “battaglia di Seattle”, si poteva leggere su uno dei maggiori quotidiani italiani che i manifestanti “Evidentemente hanno usato Internet per organizzarla, ovvero si sono serviti della globalizzazione che dicono di voler combattere.” [1], senza alcun cenno a ((i)). Significativamente, sempre sullo stesso argomento, un anno dopo, veniva pubblicato un articolo dove sebbene si parli diffusamente di Internet e dei no-global non si cita mai ((i)) [2]. Più che frutto di una cosciente volontà censoria questo genere di omissioni sono il risultato di un misto di provincialismo, di un certo modo di (non) fare informazione e di ignoranza dei movimenti e dei loro rapporti con le nuove tecnologie della comunicazione.

2. La nascita del network

Il sito seattle.indymedia.org va on-line il 24 novembre del 1999 e l’idea viene fatta risalire alle discussioni che si erano tenute nel giugno dello stesso anno in occasione del “Carnevale anticapitalista” che vide manifestazioni in decine di città e in diversi paesi. Ma già nel 1996, in occasione della Convention Democratica a Chicago, un gruppo chiamato “Countermedia” aveva deciso di raccontare le proteste e le dimostrazioni attraverso il Web [3]. Il sito nasce come strumento informativo di un neonato “Independent Media Center” per documentare le proteste contro il “Millennium Round” a Seattle, ma la sua attività non si esaurisce alla fine delle due giornate, anzi iniziano a comparire altri siti con lo stesso logo, uno dei primi già nel febbraio del 2000 a Boston. Prima negli USA e poi in diversi paesi ((i)) si trasforma velocemente in una rete che copre buona parte del mondo “occidentale”.

Il software usato per il sito era stato sviluppato in Australia dal collettivo “Catalyst” e usato per la prima volta durante il “Global Day of Action” (18/06/1999) e permetteva a chiunque fosse in possesso degli strumenti adatti di pubblicare liberamente testi, immagini, audio e filmati. Una cosa in quegli anni assolutamente rivoluzionaria [4]. Le notizie su quello che stava accadendo a Seattle raggiungono immediatamente tutto il mondo aggirando il filtro delle agenzie ufficiali anche grazie a ((i)) che si propone come un sito di informazione indipendente fatto e gestito direttamente da chi partecipa ai movimenti. Un sito che ha un immediato successo: già durante i giorni di Seattle il sito colleziona più di un milione e di visitatori, un numero impressionante ancora oggi.

Il primo testo pubblicato sul sito chiarisce fin dall’inizio qual’è la posta in gioco:

La resistenza è globale… La rete altera drasticamente l’equilibrio tra media multinazionali e attivisti. Con solo qualche riga di codice e alcune attrezzature economiche, possiamo creare un sito web automatizzato e in tempo reale che compete con le aziende. Preparati a essere sommerso dall’ondata di produttori di media attivisti sul campo a Seattle e in tutto il mondo, che raccontano la vera storia dietro l’accordo commerciale mondiale.” [5]

In realtà ((i)) è molto più che un modo per diffondere informazione indipendente in quanto diventa – fin dall’inizio – anche un prezioso strumento per organizzare le proteste a livello globale. Già alla fine del 2000 i nodi sono 30, nel 2001 se ne contano almeno una settantina, compreso quello italiano, italy.indymedia.org [6], anche se la diffusione dei siti è prevalentemente statunitense e restano ancora fuori, soprattutto per ragioni legate alla lingua e alla diffusione degli strumenti informatici tutte le regioni dell’Est europa e buona parte di quelle africane e asiatiche. Negli anni successivi il numero dei nodi continua a salire, sono più di 80 nel 2002 e 122 nel 2003. Tra il 2005 e il 2006, quelli che probabilmente si possono considerare gli anni di picco nella diffusione del network, i nodi locali di ((i)) arrivano a più di 170 e il loro numero segue, anche se in modo meno veloce, a crescere. La distribuzione continua a essere centrata sulle regioni del cosiddetto “primo mondo” ma fanno la loro comparsa anche nuovi siti in Asia e Africa.

3. Informazione indypendente via web

La struttura portante delle pagine web di ((i)), differenze grafiche a parte, è quasi sempre la stessa, una Home divisa in tre colonne con al centro quella delle “feature”, vale a dire i testi preparati dal gruppo che gestisce il sito, e sulla destra il “newswire”, ovvero l’elenco, aggiornato in tempo reale di tutti i contributi pubblicati dagli utenti, nella colonna di sinistra c’è la lunga lista che elenca gli altri nodi della rete.

Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, le relazioni messe in piedi fin dai primi anni di funzionamento sono tutto meno che il trionfo dello spontaneismo: le procedure per aprire un nodo di ((i)), chiamate “process”, sono alquanto dettagliate e stringenti ma tutte le discussioni vengono fatte su liste quasi sempre pubbliche anche se spesso risulta difficile, per chi è esterno a determinate dinamiche e non conosce bene l’inglese, riuscire a seguire quello che sta succedendo. Sono due le caratteristiche che contraddistinguono il funzionamento di ((i)) quelli che si potrebbero definire i suoi principi fondanti: la libertà di comunicazione e l’auto-organizzazione e nel 2001 in una riunione tenuta a San Francisco discutendo del futuro del progetto vennero messi nero su bianco i “principi di unità” [7] che avrebbero dovuto essere alla base della creazione e del funzionamento dei nodi futuri.

Anche se oggi può sembrare strano, agli inizi di questo secolo praticamente non esistevano su Internet piattaforme attraverso le quali era possibile pubblicare automaticamente testi e immagini e quindi la “pubblicazione aperta”, vale a dire libera da censura e senza moderazione preventiva è stata davvero una rivoluzione epocale nel campo della comunicazione [8]. Per gestire il network veniva usato il “metodo del consenso” [9] un sistema di discussione e decisione che non prevede votazioni finali e quindi la creazione di maggioranze e minoranze. Un sistema che resterà a lungo nella storia dei movimenti, non solo negli USA, e che sarà (in parte) ripreso alcuni anni dopo da “Occupy Wall Street”. Ma anche a livello tecnico ((i)) è stato un esperienza importante, dando un impulso al movimento a favore del software libero contro i colossi del copyright e promuovendo l’uso di strumenti, come per esempio il “Wiki”, che poi si sono diffusi a macchia d’olio in molti altri contesti.

La composizione dei gruppi di gestione dei diversi nodi cambiava da situazione a situazione: alcuni di essi erano formati da un pugno di persone, altri da collettivi molto numerosi, qualcuno aveva dietro associazioni o cooperative; in alcuni la composizione politica dei partecipanti era omogenea in altri un po’ meno o quasi per nulla. I siti a volte restavano on-line solo per qualche mese, oppure si scindevano in versioni locali, a volte chiudevano e riaprivano gestiti da altre persone. Diversissima anche la qualità di quanto veniva pubblicato. Le poche cose che sempre li accomunavano, oltre al logo, erano i “principi fondanti” ricordati sopra.

4. La repressione

Naturalmente, dopo un primo momento di disattenzione, le strutture dei governi hanno iniziato a interessarsi maggiormente di questa “strana cosa” difficilmente definibile e inquadrabile secondo gli schemi delle teorie della comunicazione di massa ai tempi di Internet.

Impossibile conoscere o elencare tutti i casi ma ricordiamo che la repressione ha colpito ((i)) sia a livello di strutture tecniche che più concretamente con azioni dirette contro chi faceva informazione indipendente.

linksunten logoAgosto 2000, il Dipartimento di Polizia di Los Angeles interrompe la connessione di ((i)) che stava coprendo la Convenzione Democratica a causa di una sospetta auto-bomba.

Aprile 2001, il FBI chiede al nodo di Seattle il log con gli IP degli accessi al sito.

Luglio 2001, durante le giornate contro il G8, a Genova la polizia assalta il “mediacenter” dove erano collocate le strumentazioni di ((i)), distruggendo materiali, picchiando e arrestando persone. Successivamente verranno perquisite alcune “sedi” (sic!) di italy.indymedia.org

Ottobre 2004, il FBI sequestra alcuni hard-disk, collocati in Gran Bretagna, che ospitano i siti di una ventina di nodi europei di ((i)), compreso quello italiano.

Giugno 2005, viene sequestrato il server di Bristol (UK) e arrestato uno dei gestori.

Ottobre 2006, Brad Will, giornalista e volontario di ((i)) viene ucciso in Messico, probabilmente da un paramilitare, mentre stava documentando le proteste in corso a Oaxaca.

Gennaio 2009, uno degli amministratori dei server di indymedia.us riceve una ingiunzione dalla Corte Federale dello Stato dell’Indiana (USA) con la richiesta di fornire informazioni. Viene sequestrato un server di indymedia a Manchester (UK).

Aprile 2013, il Governo greco blocca l’accesso al sito athens.indymedia.org

Agosto 2014, viene nuovamente sequestrato il server di Bristol (UK).

Giugno 2017, il Ministero degli Interni tedesco vieta il nodo linksunten.indymedia.org e la polizia opera perquisizioni nelle case di alcuni dei gestori del sito.

5. Venti anni dopo

Dopo venti anni molti sono convinti che ((i)) sia finita anche perché sono altre le piattaforme che nel frattempo hanno assunto maggiore importanza nella comunicazione elettronica, anche di quella usata dagli attivisti politici. A una veloce ricerca senza alcuna pretesa di completezza, oggi ci sono ancora siti [10] che riportano il logo di ((i)), che hanno più o meno lo stesso aspetto grafico e che sembra continuino a funzionare nello stesso modo di sempre. Quella che invece è probabilmente sparita è la rete di collegamento che stava dietro a questo progetto e i siti sopravvissuti sono solo una pallida ombra di quello che è stato il network.

Alcuni sono convinti che la fine di ((i)) sia stata causata dall’avvento del cosiddetto “web 2.0”, altri che sia un effetto della sparizione del movimento che nel 1999 aveva fornito le energie vitali per farlo decollare. Probabilmente la risposta non è univoca e forse non ha nemmeno molto senso affannarsi a cercarla. Resta, incontrovertibile, il fatto che il progetto è stato sicuramente il più importante tra quelli portati avanti dai movimenti per dotarsi di propri strumenti di comunicazione di massa e contrastare a livello globale l’egemonia del sistema mediatico del Potere.

don't hate the media be the mediaPer raccontare davvero cosa è stata ((i)) ci vorrebbe molto più che uno scritto occasionale e quindi questo è un semplice pretesto per rendere omaggio a un progetto, frutto di una intelligenza collettiva, che ha sperimentato un tipo di comunicazione autogestita e orizzontale, che ha provato a ribaltare – riuscendoci – il paradigma dell’informazione ufficiale, che ha dato voce a chi non l’aveva mai avuta in precedenza, che continua a r-esistere, anche se in altre forme, all’interno di un panorama mediatico diverso da quello del 1999 ma sempre dominato della comunicazione ufficiale [11].

Inutile nascondere che questo progetto ha avuto le sue contraddizioni, i suoi problemi, i suoi brutti momenti e le sue mancanze ma crediamo che, anche mettendoli tutti insieme, gli aspetti negativi non riusciranno mai a bilanciare quanto di importante e positivo è stato fatto in quegli anni.

Il ventennale dovrebbe essere non tanto una occasione per ricordare nostalgicamente i bei tempi andati ma una buona occasione per rilanciare e continuare la lotta per costruirci i nostri mezzi di comunicazione autogestiti e indipendenti.

Pepsy

 

Riferimenti

[1] “Il progresso non si ferma ma dobbiamo governarlo”, la Repubblica, 3/12/1999.

[2] “Seattle, la protesta globale”, la Repubblica, 3/12/2000.

[3] Le pagine sono ancora presenti sul web, come memoria storica, qui http://www.cpsr.cs.uchicago.edu/countermedia/

[4] I CMS più famosi non esistevano ancora: Drupal (2000), WordPress (2003), Joomla (2005).

[5] Era firmato “Maffew & Manse” ed era qui http://seattle.indymedia.org/en/1999/11/2.shtml

[6] Il quale magari si potrebbe celebrare l’anno prossimo, quando saranno passati 20 anni.

[7] Di seguito i “principi di unità” che, comunque, sollevarono anche infinite discussioni:

1. L’Independent Media Center Network (IMCN) è basato su principi di eguaglianza, decentralizzazione e autonomie locali. L’IMCN non deriva da un processo di centralizzazione burocratica, ma dall’auto organizzazione di collettivi autonomi che riconoscono l’importanza dello sviluppo dell’unione del network.

2. Tutti gli IMC considerano il libero scambio e il libero accesso all’informazione un requisito essenziale per costruire una società più libera e più giusta.

3. Tutti gli IMC rispettano il diritto di tutti quegli attivisti che decidono di non essere né fotografati né filmati.

4. Tutti gli IMC basati sulla credibilità dei propri contribuenti e lettori, dovranno utilizzare il modello di pubblicazione web aperta, dando la possibilità a singoli individui, gruppi e organizzazioni di esprimere le loro opinioni, con l’anonimato se desiderato dagli/lle stessi/e.

5. L’IMC Network e tutti i collettivi degli IMC locali dovranno essere no-profit.

6. Tutti gli IMC riconoscono l’importanza del processo di cambiamento sociale e sono impegnati nello sviluppo di relazioni non gerarchiche e non autoritarie. A questo proposito si organizzino collettivamente e si impegnino a utilizzare il metodo decisionale del consenso, attraverso la partecipazione democratica e trasparente di tutti i suoi membri.

7. Tutti gli IMC riconoscono che un requisito essenziale per la partecipazione al processo decisionale di ogni gruppo locale è il contributo dell’individuo al lavoro del gruppo stesso.

8. Tutti gli IMC sono impegnati ad assistersi l’un l’altro e le rispettive comunità dovranno cercare di mettere in comune le proprie risorse, inclusi la conoscenza, le capacità e gli equipaggiamenti.

9. Tutti gli IMC devono impegnarsi ad usare sorgenti di codici accessibili a tutti, quanto più possibile, per lo sviluppo delle infrastrutture digitali, e per incrementare l’indipendenza del network da software privati.

10. Tutti gli IMC devono sottostare al principio dell’uguaglianza fra gli uomini, e non dovranno perpetrare discriminazioni di alcun genere, includendo le discriminazioni basate su differenze di razza, sesso, età, classe di appartenenza o orientamenti sessuali. Riconoscendo la vastità di tradizioni culturali all’interno del network, gli IMC si impegnano a convivere con la diversità.

[8] Si tenga presente che nel 2000 non esisteva ancora Google, YouTube e tutto il resto della compagnia.

[9] Non è questa la sede per illustrare il metodo del consenso e le critiche che, spesso giustamente, ha sollevato. Chi volesse approfondire l’argomento può partire dalla consultazione delle voci in inglese e italiano della Wikipedia.

[10] Abbiamo fatto questa veloce ricerca alla fine di ottobre del 2019 e i siti ancora attivi sono: USA (11), Sud America (5) ed Europa (10).

[11] Basta dare uno sguardo allo stato della comunicazione nell’era dei “telefonini intelligenti” e dei “social” per rendersi conto che il potere dei mass media commerciali oggi è predominante più di quanto già lo fosse nel 1999 ai tempi del predominio di giornali e televisioni.

A come Asocial

(Il testo che segue fa riferimento a un inizio di dibattito partito da un articolo pubblicato sul settimanale anarchico “Umanità Nova”. In fondo al testo i collegamenti.)

Replicando al mio intervento [1] sul tema della comunicazione sociale Enrico [2] sostiene la necessità di usare anche strumenti del potere per riprenderne “il controllo per quanto possiamo: in alcuni casi di più, in altri casi di meno. (…) in alcuni casi con maggiore libertà, in altri con meno” [3]. Più avanti afferma che “Da sempre, il modo migliore per lasciare al potere il loro controllo è stato ritirarsi dalla presenza antagonista al loro interno.” [4].

Posizioni del genere non sono certo una novità, credere che la presenza all’interno di ambiti di relazione e di comunicazione creati e/o gestiti dal potere possa portare dei benefici, anche minimi, all’agire rivoluzionario è una convinzione dura a morire. Sia chiaro che qui non si tratta di rivendicare una qualche forma di purismo ideologico da opporre di chi accetta di “sporcarsi le mani”, ma piuttosto della constatazione, concreta, del fatto che pratiche di questo tipo non abbiano mai portato a nulla di positivo.

Ci sono invece stati nel tempo diversi esempi, restando nel campo della comunicazione, che mostrano in modo evidente quanto la creazione e la gestione di strumenti di comunicazione esterni (per quanto possibile) alle dinamiche istituzionali abbiano contraddistinto momenti particolarmente significativi nella storica lotta degli oppressi. Ricordiamone brevemente qualcuno.

Sicuramente tutti sanno che esiste ancora un quotidiano di carta, “il manifesto” (1971-) che venne fondato anche per creare un mezzo di comunicazione alternativo a quelli ufficiali, molti sanno che in quegli anni ci furono anche altre esperienze simili, come “Lotta Continua” (1972-1982) e il “Quotidiano dei Lavoratori” (1974-1979). Probabilmente invece sono in meno a sapere che nel febbraio del 1979 alle tre testate ricordate sopra se ne aggiunsero, anche se solo per poche settimane, altre due: “Ottobre” e “La Sinistra”. Portando a ben cinque il numero dei quotidiani che facevano riferimento alla cosiddetta “sinistra rivoluzionaria”. Sebbene tutti questi giornali avessero come punto di riferimento un partito o un gruppo più o meno “extraparlamentare” i loro contenuti non sempre erano in perfetta sintonia con la linea dettata dai rispettivi gruppi dirigenti e indubbiamente quelle esperienze hanno rappresentato il punto più alto del tentativo dei movimenti di quegli anni di fare informazione indipendente.

Quasi contemporaneamente, la stagione delle “radio libere”, che al suo interno comprendeva le radio di movimento, è un’altra dimostrazione che sebbene creare e autogestire i propri mezzi di comunicazione sia un compito faticoso e difficile non sia del tutto stato inutile in quanto proprio a quelle esperienze si è riannodata, un quarto di secolo dopo, la storia di “Radio GAP” che ha funzionato a Genova durante le giornate del 2001 e oggi quelle di radio come “Radio Wombat”, che addirittura trasmette via web e sulle AM.

Enrico ha scritto che il suo articolo “era centrato sulla comunicazione dei movimenti verso l’esterno e, magari mi sbaglierò, la stagione delle BBS era legata ad una comunicazione rivolta sostanzialmente verso l’interno ed in più mediata da specialisti.” [6]
Le BBS, quelle che facevano riferimento al movimento, erano indirizzate sia a una comunicazione interna che esterna in quanto sono state il primo strumento di comunicazione realmente interattivo. Non si trattava, almeno non nelle intenzioni di chi le aveva create, di ambienti di comunicazione riservati agli attivisti o agli specialisti ma a chiunque fosse in possesso di un computer, una linea telefonica e un modem. Addirittura, visto che in quegli anni l’informatica era ancora uno strumento per pochi privilegiati, alcuni dei collettivi che gestivano le BBS legate a ECN pubblicavano e diffondevano fogli fotocopiati nei quali riportavano una parte delle informazioni circolate in formato elettronico destinate a chi non aveva, non poteva o non voleva usare un computer [7]. Cercando in questo modo di colmare il divario tra chi aveva accesso a quello strumento e chi non lo aveva e contemporaneamente di aumentare l’ambito di diffusione delle informazioni.
Si è trattato sicuramente di esperienze limitate ma, si deve tener presente che in quegli anni la diffusione dei personal computer e degli strumenti della comunicazione elettronica era (soprattutto per ragioni economiche) appena agli inizi e quindi la stragrande maggioranza della popolazione non avrebbe comunque potuto accedervi.

Il discorso non cambia passando nel campo della comunicazione elettronica su Internet che segue direttamente quella delle BBS: durante gli anni migliori di “italy.indymedia” (2001-2006), una iniziativa strettamente collegata ai movimenti “no-global” erano i giornalisti dei mezzi di comunicazione ufficiali a doversi informare su quello che veniva pubblicato su un sito decisamente fuori dal sistema mediatico ufficiale [5], piuttosto che il contrario come avveniva fino a quel momento e ancora avviene oggi sui cosiddetti “social” dove è prassi comune riprendere e rilanciare quanto diffuso (“bufale” comprese…) dai mezzi di disinformazione istituzionali.

In pratica, nell’ultimo mezzo secolo, almeno una parte di noi ha preso piena consapevolezza della necessità di dotarsi di strumenti di comunicazione indipendenti da quelli commerciali e istituzionali. Addirittura nella comunicazione elettronica questa consapevolezza ci ha permesso di usare questi nuovi strumenti molto prima che la Rete diventasse, quasi esclusivamente, un canale commerciale, di controllo e di comunicazione istituzionale.

Oggi questa consapevolezza sembra perduta, visto che sono in troppi a pensare che sia necessario essere presenti nei “social” in quanto in questo modo si raggiungono molte più persone e sono in molti a snobbare i tentativi fatti da chi invece ritiene che sia più importante impegnarsi a fondo per dotarsi di mezzi di comunicazione autogestiti.

Enrico, a proposito di “Mastodon” ha scritto: “Un sistema come Mastodon, per fare solo un esempio, è ottimo per la comunicazione interna di movimento: da un lato non ha algoritmi deformanti, dall’altro non si è immersi dal “rumore” della comunicazione degli “esterni” – meme dei gattini od altro.” [8]
Non è proprio così. “Mastodon” è uno strumento di comunicazione molto simile a “Twitter” e quindi adatto sia alla comunicazione esterna che interna. Inoltre, chiunque abbia frequentato almeno per qualche giorno la prima istanza di “Mastodon” creata da compagni [9] o anche solo letto i suoi documenti fondativi si sarà accorto che sono presenti sia gli immancabili gattini che i “meme” e che queste presenze hanno una precisa ragione d’essere.

Pensare di poter agire su due livelli, sia utilizzando dall’interno strumenti del nemico sia costruendone di alternativi, è una posizione perdente in partenza e anche in questo caso il motivo non riguarda qualche bizzarra purezza ideologica ma i meccanismi di funzionamento della comunicazione e, in particolare, quella mediata da computer.

É ben noto che è impossibile utilizzare, per più tempo e non episodicamente, due “social” diversi. Se ne sono accorti persino i gestori di Google che, nel corso degli ultimi anni, hanno provato più volte a fare concorrenza a “FaceBook” (FB), sperando nel migliore dei casi in una migrazione degli utenti verso la loro piattaforma o, nel peggiore, credendo possibile una loro condivisione. Tentativi falliti miseramente perché una persona “normale” [10] non può usare contemporaneamente due “social”. Usare FB significa non poter usare, realmente, altro di simile e vuol dire quindi partecipare concretamente all’aumento del potere e dell’influenza di uno strumento istituzionale e commerciale e nello stesso tempo contribuire al probabile fallimento di una alternativa.

L’obiettivo da porsi quindi non è quello di far raggiungere a “Mastodon” il miliardo di utenti, una logica che non ha molto senso, ma quello di creare i nostri strumenti di comunicazione autogestiti, decentralizzati e federati, seguendo una pratica che ci appartiene da sempre.

Per fortuna, nonostante il pervicace attaccamento di molti compagni ai famigerati “social” a un anno di distanza sono nate in Italia altre istanze di “Mastodon” vicine ai movimenti: “Nebbia”, “Cisti” e “Snapj” [11]. Un piccolo segnale che non tutti si sono lasciati ingabbiare volontariamente, altre possibilità offerte a chi vuole uscire dal recinto.

Pepsy

 

Riferimenti
[1] Pepsy, “Potere e Comunicazione Sociale”, Umanità Nova, n.23, 2019. https://umanitanova.org/?p=10483
[2] Voccia, Enrico “Se Mastodon avesse miliardi di utenti”, “Umanità Nova”, n.24, 2019. https://umanitanova.org/?p=10558
[3] Voccia, cit.
[4] Voccia, cit.
[5] Un sito che nel mese di ottobre del 2006 – vale a dire alla fine della sua storia – ha contato 1.140.716 visitatori.
[6] Voccia, cit.
[7] Ci sono almeno tre situazioni a nostra conoscenza che lo hanno fatto: quella di Milano, la cui raccolta digitalizzata (1991-1995) si può trovare qui https://grafton9.net/bollettini-ecn-milano, quella di Bologna che si può trovare qui https://archive.org/details/BollettiniEcn e quella di Pisa che però non ci risulta essere disponibile in Rete.
[8] Voccia, cit.
[9] Pepsy, “Jurassic network”, “Umanità Nova”, n.23, 2018. https://umanitanova.org/?p=8150
[10] Per “normale” qui intendiamo una persona diversa dai cosiddetti “influencer” e da quelli che sulla Rete ci lavorano.
[11] “Nebbia” https://nebbia.lab61.org/about; “Cisti” https://mastodon.cisti.org/about; “Snapj” https://snapj.saja.freemyip.com/about

PS
Per comprendere meglio da dove salta fuori il pippone precedente si leggano, in ordine:
“Il potere della comunicazione”
“Potere e comunicazione sociale”
“Se Mastodon avesse miliardi di utenti”
tutti pubblicati sul settimanale anarchico “Umanità Nova” nel 2019