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Un passato senza fine

La storia è piena di eventi, anche piccoli, che a volte si trasformano in una notizia molto più importante. Non è questo il caso di quanto accaduto il 27 ottobre scorso, quando alcune centinaia di manifestanti hanno invaso pacificamente la Grand Central Station di New York dove è stata bloccata la circolazione dei treni fino a quando la polizia ne ha portati via in manette a centinaia. Eppure il fatto aveva tutti gli elementi per diventare notizia in quanto i partecipanti al pacifico sit-in mostravano cartelli e striscioni contenenti scritte alquanto significative: “I palestinesi devono essere liberi”, “Piangere i morti e combattere come dannati per i vivi”, “Cessate il fuoco”. E, a beneficio di quelli molto distratti, i manifestanti indossavano anche magliette sulle quali era scritto: “non nel nostro nome” e “cessate il fuoco adesso”. Come se non bastasse il luogo dove si è svolto il sit-in è noto in tutto il mondo anche grazie al cinema e, per ultimo ma non ultimo, la maggior parte dei manifestanti erano ebrei. Come se tutto questo non bastasse la manifestazione era stata preceduta, il 18 ottobre, da una identica (partecipanti e slogan) che aveva occupato “US Capitol”, un altro noto edificio sempre nella stessa città. Anche in questa occasione erano stati fatti centinaia di arresti.

Eppure il 28 ottobre è stato difficile trovare la notizia sui mezzi di comunicazione italiani, nessun quotidiano di carta l’aveva in prima pagina e mancava (almeno nella mattinata) sulle Home Page dei siti web dei più noti organi di informazione. Nonostante tutti avessero in rilievo notizie e servizi su quanto stava accadendo a Gaza dove, proprio la notte prima, l’esercito israeliano aveva cominciato le operazioni di terra.

Una ragione di questa anomalia è sicuramente dovuta al fatto che i protagonisti delle proteste a New York sono degli ebrei, una cosa che contrasta con la narrazione corrente in quanto l’argomento “israele-palestina” è di quelli che producono immediatamente e automaticamente degli schieramenti, dietro i quali spesso si raccolgono persone la cui conoscenza del problema non va oltre le notizie diffuse (o non diffuse) dai mezzi di comunicazione ufficiali o, peggio, dalla “bolla digitale” nella quale sono rinchiuse o dalla disinformazione largamente presente su Internet. In altri casi le divisioni sono causate da prese di posizione puramente e astrattamente ideologiche che sono il risultato di vetuste interpretazioni socio-economico-politiche e molto spesso dalla perniciosa idea che “il nemico del mio nemico è mio amico”. Eppure, forse mai come in questo caso e in questo momento storico, è a disposizione una enorme quantità di documentazione liberamente accessibile a chi voglia conoscere i fatti e sviluppare un proprio autonomo punto di vista partendo da una posizione che sia, per quanto umanamente possibile, priva di pregiudizi.

fuck your national identityUn ostacolo non secondario è che sull’argomento in questione si può scrivere molto, si può esagerare facendo risalire le radici del conflitto a fatti storici o leggendari vecchi anche duemila anni oppure (più ragionevolmente) fissando un qualsiasi più o meno arbitrario punto di partenza di una lunga vicenda che è ritornata, per l’ennesima volta, violentemente all’attenzione di tutto il mondo. Altro problema, per chi non è giovanissimo, è l’impressione di trovarsi davanti a una storia infinita soprattutto perché quello che è accaduto a partire dal 7 ottobre non è certo qualcosa di inaspettato, imprevedibile o che ha cause naturali come un terremoto ma esattamente il contrario.

Le cause infatti sono da sempre sotto gli occhi di tutti quelli che hanno un minimo di onestà intellettuale e i colpevoli sono, ognuno per la sua parte e tutti in solido, più che conosciuti sia a livello globale che locale. Colpevole è l’intera “comunità internazionale” che attraverso decenni di politica interessata ma ambigua e contraddittoria ha sempre considerato quella regione semplicemente come un’area nella quale manovrare secondo i propri interessi del momento o i progetti futuri, un territorio nel quale giocare il Risiko del colonialismo prima, farlo diventare un campo di battaglia durante la “guerra fredda” e infine uno dei tanti palcoscenici della cosiddetta “geopolitica”. A testimoniarlo ci sono le innumerevoli risoluzioni di carta straccia dell’ONU, gli accordi, i negoziati inutili che si sono susseguiti nel corso degli anni e le soluzioni che sono nate già morte. Per non dimenticare poi le immancabili dichiarazioni delle massime autorità civili e religiose di tutto il mondo e le mobilitazioni e gli appelli per la pace. In molte occasioni palestinesi ed ebrei sono diventati, loro malgrado, dei burattini manovrati da interessi economici e politici che vanno ben oltre un’area grande quanto un paio di regioni italiane.

Complici sono state sicuramente le élite arabe ed ebree che non hanno mai avuto il coraggio e la lungimiranza necessarie a riconoscere la convenienza del riconoscimento del reciproco diritto all’esistenza, una ennesima dimostrazione dei danni enormi che produce il nazionalismo (comunque lo si voglia chiamare) e il sanguinoso prezzo che di conseguenza sono costretti a pagare i più deboli. Se poi, alla peste del nazionalismo ci si aggiunge quella religiosa il miscuglio diventa ancora più esplosivo e la Palestina è un luogo nel quale le favole della religione, soprattutto quelle monoteistiche, hanno le radici in un humus particolarmente nutriente.
In una sorta di “coazione a ripetere” collettiva i “tifosi” delle due parti in campo hanno perso il loro tempo ad accumulare una quantità quasi infinita di esempi da portare, di offese da riparare, di morti da vendicare e, più passa il tempo, più questa lista si allunga come la scia di sangue che non tiene conto dei confini, degli Stati, dei muri, delle terre occupate e contese. Gli ultrà delle due “tifoserie” sono sempre pronti a mostrare la macabra contabilità del crescente numero di assassini e vittime, di colpevoli e innocenti, di verità e menzogna in un confronto che non ha alcun senso e che continua ad andare avanti senza sosta.

Non esistono soluzioni miracolose da proporre, la rivoluzione anarchica purtroppo non è un orizzonte vicino in quanto solo la sconfitta definitiva delle ideologie di morte (Stato, Capitalismo, Religione) potrebbe porre la parola fine a questo annoso conflitto e non solo a questo. L’unica soluzione realistica nel mondo attuale, a parte l’annientamento completo di una delle due parti che comunque sarebbe solo un precedente per la continuazione della carneficina, è che i contendenti trovino un accordo di compromesso su come dividersi il territorio e come convivere pacificamente. Qualsiasi altra pasticciata soluzione sarà solo un intervallo, più o meno lungo, tra un massacro e il prossimo.

Ma per arrivare a un accordo onesto la principale condizione è che israeliani e palestinesi rinuncino definitivamente all’eredità di un passato senza fine e al suo pesante fardello di sangue, se questo legame non verrà definitivamente spezzato il futuro non potrà che continuare a riprodurre il presente.

[Pubblicato su “Umanità Nova”, anno 103, numero 32 ­ del 5/11/23]

G 20 e mass media

Il “G20” è uno dei numerosi incontri internazionali che infestano il pianeta e che di solito servono a tutto fuorché a risolvere i suoi problemi globali. Prima del vertice di quest’anno, che si è tenuto in India, si è svolta (il 6 settembre) anche una riunione indetta da giornalisti che lavorano in alcuni dei paesi che fanno parte del G20, un incontro chiamato “M20 Media Freedom Summit”.
Gli argomenti trattati in questo incontro sono stati molti e la maggior parte hanno sicuramente una importanza globale non solo per gli addetti ai lavori ma anche per il resto della popolazione.
Molto spazio hanno avuto gli interventi riguardanti le ormai famigerate fake news: alcuni si sono lamentati della minaccia che la loro diffusione nei social media portano al lavoro dei giornalisti. Un attacco che avrebbe come scopo addirittura quello di distruggere la professione di giornalista, trasformando l’informazione e la comunicazione in un dibattito rissoso da bar. Altri hanno segnalato l’ennesima iniziativa, in questo caso promossa dall’inglese BBC, che avrebbe l’obiettivo di combattere le fake news attraverso un dialogo tra i produttori di notizie e le grandi piattaforme tecnologiche. Tra gli strumenti previsti una sorta di “allarme” che avverta gli addetti ai lavori nel caso le notizie false diffuse diventino di tendenza.
Altri interventi, più interessanti, hanno stigmatizzato la tendenza di alcuni politici (che spesso ricoprono incarichi governativi) a prendere di mira determinati giornalisti perché i loro articoli sono critici verso il loro operato. Non li invitano alle conferenze stampa o alle loro manifestazioni e a volte incitano i loro sostenitori sui social media ad attaccarli. Qualcuno ha ricordato che i problemi sorti quando nel 2013 vennero pubblicate su alcune testate giornalistiche le rivelazioni di Edward Snowden furono superati solo grazie a una collaborazione a livello internazionale che riuscì a battere chi avrebbe preferito il silenzio su quella vicenda. Per chi non lo ricordasse Snowden rivelò molti dei sistemi di controllo delle informazioni e della popolazione usati, più o meno legalmente, dai governi di tutto il Mondo. Qualcuno ha anche ricordato che i costi che devono sostenere coloro che vogliono fare informazione indipendente su Internet spesso rendono impossibile la loro esistenza se non ricorrendo a sponsorizzazioni che poi spesso influenzano le informazioni.
Tra gli interventi più interessanti quello di un giornalista che ha ricordato come la rivoluzione digitale portasse con sé una nuova speranza per la democrazia, per la condivisione della conoscenza, per la comunicazione senza confini e per la partecipazione dei cittadini. Oggi invece anche nelle democrazie elettive viene represso il giornalismo indipendente e lo strapotere delle piattaforme digitali stia deludendo quella speranza. Come dimostrato dalla storia di Wikileaks il cui fondatore Julian Assange sta oggi pagando un prezzo troppo alto per il suo impegno.
La cosa più significativa che però, in alcuni casi, è stata passata in secondo piano o è stata taciuta del tutto è che questa riunione, organizzata prima dell’apertura del summit proprio per portare le tematiche della libertà di informazione all’attenzione del G20, si sia svolta on-line (nove fusi orari differenti) e non dal vivo. Questo è avvenuto “a causa delle politiche restrittive del governo indiano – con visti per conferenze e visti giornalistici soggetti a livelli proibitivi di controllo” (da https://thewire.in/media/g20-m20-media-freedom-summit)
Basterebbe anche solo quest’ultimo fatto a dirla lunga sulla situazione della comunicazione e dell’informazione nel XXI secolo.

Uccellacci e uccellini

Nei primi giorni di novembre sembrava proprio che fosse arrivata al termine la saga di “Twitter”. Dopo mesi di tira-e-molla Elon Musk, definito l’uomo più ricco del mondo, ha acquisito per la modica cifra di 44 miliardi di dollari il controllo di uno dei più conosciuti servizi di comunicazione su Internet.

Quello che spesso viene chiamato “blue birdie”, a causa del suo logo che rappresenta un uccellino blu, è un servizio aperto nel 2006 e che quasi immediatamente ha riscosso un grande successo, soprattutto tra i blogger e i giornalisti che ne hanno apprezzato la semplicità d’uso e la velocità. La limitazione del numero di caratteri (140) che si potevano usare per ogni messaggio (“tweet”) e la possibilità di spedirli da un telefonino anche non molto potente hanno sicuramente contribuito alla diffusione di uno strumento che alla fine del 2012 aveva 200 milioni di iscritti che sono diventati 396 alla fine del 2021. Nonostante i numeri, che posizionano “Twitter” alquanto in basso nella classifica (per quello che vale) dei “social network” la sua importanza nel panorama mediatico è stata superiore a quella di altri servizi con un numero di utenti ben superiore. Secondo alcune ricerche sociologiche a usare questo strumento sono soprattutto maschi, di età compresa tra i 25 e i 34 anni e residenti nella maggior parte dei casi negli USA e in Giappone. Uno dei fattori che hanno influito sulla sua crescita di importanza è il fatto che moltissime persone famose, in tutti i settori della vita sociale, hanno iniziato a utilizzarlo o, in alcuni casi, a pagare qualcun altro per farlo. Gli introiti dell’azienda derivano principalmente dalla pubblicità, fatta direttamente o tramite una delle altre società che sono state acquisite nel corso degli anni. Alla fine del 2021 “Twitter” aveva circa 7500 dipendenti.

L’ingresso del nuovo padrone è avvenuto in modo molto rumoroso visto che il personaggio sa che non c’è niente di meglio che una campagna pubblicitaria promozionale e soprattutto gratuita, immancabilmente arrivata. Subito dopo i primi annunci tutti i mezzi di comunicazione, vecchi e nuovi, hanno seguito il balletto che ha preceduto l’acquisizione vera e propria. Anche perché Elon Musk ha iniziato a rilasciare dichiarazioni sui cambiamenti che aveva in mente di attuare una volta entrato in possesso dell’azienda. Quello principale riguardava la politica di moderazione dei contenuti che è da sempre tra i problemi centrali in un qualsiasi “social” mentre il secondo aveva a che fare con le modifiche da implementare per migliorare la redditività del servizio.

Una volta acquisito “Twitter” si è sollevata una tempesta che ha colpito tutti, sia gli utenti del servizio che i dipendenti della società. Ai primi è stato annunciato che la “spunta” sul nome, vale a dire il simbolo che certifica “l’identità” di un utente, sarebbe diventata a pagamento. Per i secondi è andata molto peggio in quanto è stato anticipato che sarebbe stato licenziato addirittura il 75% del personale. Questi annunci hanno causato molto rumore e sono stati seguiti, come prevedibile, da una serie di smentite, di conferme, di passi in avanti e indietro. L’abbonamento per avere la “spunta” è passato da 20 a 8 dollari al mese e, in questo momento, è stato sospeso. Il numero dei dipendenti da licenziare è passato dal 75% al 50%, e secondo alcuni per risparmiare sulle buonuscite di quattro top manager (dai 20 ai 60 milioni di dollari a testa) sembra che Elon Musk li abbia licenziati “per giusta causa”, come diremmo in Italia.

Intanto, sempre per mantenere uno spazio sulle news, il nuovo padrone ha consigliato di votare il Partito Repubblicano nelle elezioni di medio termine che si sono tenute negli Stati Uniti la scorsa settimana. La pantomima potrebbe continuare ancora, tra il monumento dedicato al miliardario eretto dai gestori di una delle tante “criptomonete” e il commento complottista di Musk riguardante l’aggressione a Paul Pelosi marito di Nancy (Portavoce della Camera degli USA), poi cancellato; ma non aggiungerebbero molto di interessante alla storia. Nel suo primo discorso ai dipendenti, il nuovo padrone, sembra che abbia prospettato anche la possibilità di un fallimento dell’azienda a meno che non cambi – in modo radicale – il suo funzionamento.
Ed è questo forse uno dei punti chiave in quanto nel corso degli anni “Twitter” ha assunto un ruolo importante all’interno della comunicazione politica, soprattutto negli Stati Uniti, dove anche il Presidente in carica usa un account personale (“potus” che sta per President Of The United States) e si è molto spesso parlato della piattaforma sopratutto in relazione alle vere o presunte manovre da parte del governo russo per influenzare e manipolare la politica interna americana. L’importanza di questo servizio è iniziata probabilmente ai tempi di Barak Obama che è stato tra i primi a utilizzare in modo massiccio gli strumenti della comunicazione digitale. Non ci è voluto molto per rendersi conto che mentre uno spot televisivo può costare anche milioni di dollari un “tweet” ben scritto può raggiungere milioni di persone ed essere quasi gratuito. Allo stesso modo però un errore può essere pagato caro, come sa quel parlamentare costretto alle dimissioni nel 2011 per aver pubblicato una foto di troppo. Donald Trump, che ha fatto ampio uso di questa ribalta, ha avuto l’account “sospeso permanentemente” dopo l’assalto a Capitol Hill nel giorno della Befana del 2021.

Anche in Italia molti dei politici più noti scrivono (o fanno scrivere) su “Twitter” con risultati probabilmente meno impattanti che altrove ma che comunque vengono puntualmente ripresi dai mezzi di comunicazione di massa tradizionali.

Questa vicenda ha causato però qualche piccolo effetto collaterale positivo.

Nei primi giorni seguiti all’insediamento di Musk centinaia di migliaia di persone hanno abbandonato la piattaforma alla ricerca di strumenti di comunicazione alternativa. L’effetto di questi allontanamenti è stato visibile soprattutto su “Mastodon”, un software libero che ha un funzionamento molto simile a “Twitter” ma che, al contrario di esso si basa su una filosofia diversa, se non proprio opposta. Si tratta di una piattaforma non centralizzata ma formata da singoli server che possono essere “federati” tra loro e che permettono una buona interazione tra gli utilizzatori. Nelle ultime settimane molti mass-media (anche italiani) hanno indicato “Mastodon” come una possibile alternativa per gli utenti che hanno deciso di abbandonare il servizio del miliardario.

Questa sorte di terremoto avviene in un momento nel quale la situazione non è esaltante per il panorama dei “social” commerciali, visto che anche “Meta” (“Facebook”, “Instagram”, WhatsApp”, ecc…) ha recentemente annunciato il licenziamento di circa 11 mila dipendenti, il 13% del totale. E anche il settore delle “criptovalute” non se la passa molto bene.

Il futuro dell’uccellino blu non è ancora scritto, ma i problemi economici di una azienda che perde un milione di dollari al giorno, mescolati alla smania di protagonismo del suo nuovo padrone, potrebbero formare un miscuglio davvero esplosivo.

Il mercato e la finanza applicati alle aziende che operano nel mondo della comunicazione digitale hanno dato sempre il peggio di sé: da quando la tecnologia informatica è diventata un affare lucroso si sono susseguiti veloci periodi di crescita esponenziale e lo scoppio di “bolle” che hanno lasciato sul campo quelle che sembravano imprese indistruttibili. Ma anche in un settore che non produce, direttamente, beni materiali gli effetti di ascese e cadute si ripercuotono poi concretamente sulle persone.

Pepsy

[Pubblicato su “Umanità Nova”, n.28 del 20/11/2022]