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articoli pubblicati da qualche parte su carta

A come Asocial

(Il testo che segue fa riferimento a un inizio di dibattito partito da un articolo pubblicato sul settimanale anarchico “Umanità Nova”. In fondo al testo i collegamenti.)

Replicando al mio intervento [1] sul tema della comunicazione sociale Enrico [2] sostiene la necessità di usare anche strumenti del potere per riprenderne “il controllo per quanto possiamo: in alcuni casi di più, in altri casi di meno. (…) in alcuni casi con maggiore libertà, in altri con meno” [3]. Più avanti afferma che “Da sempre, il modo migliore per lasciare al potere il loro controllo è stato ritirarsi dalla presenza antagonista al loro interno.” [4].

Posizioni del genere non sono certo una novità, credere che la presenza all’interno di ambiti di relazione e di comunicazione creati e/o gestiti dal potere possa portare dei benefici, anche minimi, all’agire rivoluzionario è una convinzione dura a morire. Sia chiaro che qui non si tratta di rivendicare una qualche forma di purismo ideologico da opporre di chi accetta di “sporcarsi le mani”, ma piuttosto della constatazione, concreta, del fatto che pratiche di questo tipo non abbiano mai portato a nulla di positivo.

Ci sono invece stati nel tempo diversi esempi, restando nel campo della comunicazione, che mostrano in modo evidente quanto la creazione e la gestione di strumenti di comunicazione esterni (per quanto possibile) alle dinamiche istituzionali abbiano contraddistinto momenti particolarmente significativi nella storica lotta degli oppressi. Ricordiamone brevemente qualcuno.

Sicuramente tutti sanno che esiste ancora un quotidiano di carta, “il manifesto” (1971-) che venne fondato anche per creare un mezzo di comunicazione alternativo a quelli ufficiali, molti sanno che in quegli anni ci furono anche altre esperienze simili, come “Lotta Continua” (1972-1982) e il “Quotidiano dei Lavoratori” (1974-1979). Probabilmente invece sono in meno a sapere che nel febbraio del 1979 alle tre testate ricordate sopra se ne aggiunsero, anche se solo per poche settimane, altre due: “Ottobre” e “La Sinistra”. Portando a ben cinque il numero dei quotidiani che facevano riferimento alla cosiddetta “sinistra rivoluzionaria”. Sebbene tutti questi giornali avessero come punto di riferimento un partito o un gruppo più o meno “extraparlamentare” i loro contenuti non sempre erano in perfetta sintonia con la linea dettata dai rispettivi gruppi dirigenti e indubbiamente quelle esperienze hanno rappresentato il punto più alto del tentativo dei movimenti di quegli anni di fare informazione indipendente.

Quasi contemporaneamente, la stagione delle “radio libere”, che al suo interno comprendeva le radio di movimento, è un’altra dimostrazione che sebbene creare e autogestire i propri mezzi di comunicazione sia un compito faticoso e difficile non sia del tutto stato inutile in quanto proprio a quelle esperienze si è riannodata, un quarto di secolo dopo, la storia di “Radio GAP” che ha funzionato a Genova durante le giornate del 2001 e oggi quelle di radio come “Radio Wombat”, che addirittura trasmette via web e sulle AM.

Enrico ha scritto che il suo articolo “era centrato sulla comunicazione dei movimenti verso l’esterno e, magari mi sbaglierò, la stagione delle BBS era legata ad una comunicazione rivolta sostanzialmente verso l’interno ed in più mediata da specialisti.” [6]
Le BBS, quelle che facevano riferimento al movimento, erano indirizzate sia a una comunicazione interna che esterna in quanto sono state il primo strumento di comunicazione realmente interattivo. Non si trattava, almeno non nelle intenzioni di chi le aveva create, di ambienti di comunicazione riservati agli attivisti o agli specialisti ma a chiunque fosse in possesso di un computer, una linea telefonica e un modem. Addirittura, visto che in quegli anni l’informatica era ancora uno strumento per pochi privilegiati, alcuni dei collettivi che gestivano le BBS legate a ECN pubblicavano e diffondevano fogli fotocopiati nei quali riportavano una parte delle informazioni circolate in formato elettronico destinate a chi non aveva, non poteva o non voleva usare un computer [7]. Cercando in questo modo di colmare il divario tra chi aveva accesso a quello strumento e chi non lo aveva e contemporaneamente di aumentare l’ambito di diffusione delle informazioni.
Si è trattato sicuramente di esperienze limitate ma, si deve tener presente che in quegli anni la diffusione dei personal computer e degli strumenti della comunicazione elettronica era (soprattutto per ragioni economiche) appena agli inizi e quindi la stragrande maggioranza della popolazione non avrebbe comunque potuto accedervi.

Il discorso non cambia passando nel campo della comunicazione elettronica su Internet che segue direttamente quella delle BBS: durante gli anni migliori di “italy.indymedia” (2001-2006), una iniziativa strettamente collegata ai movimenti “no-global” erano i giornalisti dei mezzi di comunicazione ufficiali a doversi informare su quello che veniva pubblicato su un sito decisamente fuori dal sistema mediatico ufficiale [5], piuttosto che il contrario come avveniva fino a quel momento e ancora avviene oggi sui cosiddetti “social” dove è prassi comune riprendere e rilanciare quanto diffuso (“bufale” comprese…) dai mezzi di disinformazione istituzionali.

In pratica, nell’ultimo mezzo secolo, almeno una parte di noi ha preso piena consapevolezza della necessità di dotarsi di strumenti di comunicazione indipendenti da quelli commerciali e istituzionali. Addirittura nella comunicazione elettronica questa consapevolezza ci ha permesso di usare questi nuovi strumenti molto prima che la Rete diventasse, quasi esclusivamente, un canale commerciale, di controllo e di comunicazione istituzionale.

Oggi questa consapevolezza sembra perduta, visto che sono in troppi a pensare che sia necessario essere presenti nei “social” in quanto in questo modo si raggiungono molte più persone e sono in molti a snobbare i tentativi fatti da chi invece ritiene che sia più importante impegnarsi a fondo per dotarsi di mezzi di comunicazione autogestiti.

Enrico, a proposito di “Mastodon” ha scritto: “Un sistema come Mastodon, per fare solo un esempio, è ottimo per la comunicazione interna di movimento: da un lato non ha algoritmi deformanti, dall’altro non si è immersi dal “rumore” della comunicazione degli “esterni” – meme dei gattini od altro.” [8]
Non è proprio così. “Mastodon” è uno strumento di comunicazione molto simile a “Twitter” e quindi adatto sia alla comunicazione esterna che interna. Inoltre, chiunque abbia frequentato almeno per qualche giorno la prima istanza di “Mastodon” creata da compagni [9] o anche solo letto i suoi documenti fondativi si sarà accorto che sono presenti sia gli immancabili gattini che i “meme” e che queste presenze hanno una precisa ragione d’essere.

Pensare di poter agire su due livelli, sia utilizzando dall’interno strumenti del nemico sia costruendone di alternativi, è una posizione perdente in partenza e anche in questo caso il motivo non riguarda qualche bizzarra purezza ideologica ma i meccanismi di funzionamento della comunicazione e, in particolare, quella mediata da computer.

É ben noto che è impossibile utilizzare, per più tempo e non episodicamente, due “social” diversi. Se ne sono accorti persino i gestori di Google che, nel corso degli ultimi anni, hanno provato più volte a fare concorrenza a “FaceBook” (FB), sperando nel migliore dei casi in una migrazione degli utenti verso la loro piattaforma o, nel peggiore, credendo possibile una loro condivisione. Tentativi falliti miseramente perché una persona “normale” [10] non può usare contemporaneamente due “social”. Usare FB significa non poter usare, realmente, altro di simile e vuol dire quindi partecipare concretamente all’aumento del potere e dell’influenza di uno strumento istituzionale e commerciale e nello stesso tempo contribuire al probabile fallimento di una alternativa.

L’obiettivo da porsi quindi non è quello di far raggiungere a “Mastodon” il miliardo di utenti, una logica che non ha molto senso, ma quello di creare i nostri strumenti di comunicazione autogestiti, decentralizzati e federati, seguendo una pratica che ci appartiene da sempre.

Per fortuna, nonostante il pervicace attaccamento di molti compagni ai famigerati “social” a un anno di distanza sono nate in Italia altre istanze di “Mastodon” vicine ai movimenti: “Nebbia”, “Cisti” e “Snapj” [11]. Un piccolo segnale che non tutti si sono lasciati ingabbiare volontariamente, altre possibilità offerte a chi vuole uscire dal recinto.

Pepsy

 

Riferimenti
[1] Pepsy, “Potere e Comunicazione Sociale”, Umanità Nova, n.23, 2019. https://umanitanova.org/?p=10483
[2] Voccia, Enrico “Se Mastodon avesse miliardi di utenti”, “Umanità Nova”, n.24, 2019. https://umanitanova.org/?p=10558
[3] Voccia, cit.
[4] Voccia, cit.
[5] Un sito che nel mese di ottobre del 2006 – vale a dire alla fine della sua storia – ha contato 1.140.716 visitatori.
[6] Voccia, cit.
[7] Ci sono almeno tre situazioni a nostra conoscenza che lo hanno fatto: quella di Milano, la cui raccolta digitalizzata (1991-1995) si può trovare qui https://grafton9.net/bollettini-ecn-milano, quella di Bologna che si può trovare qui https://archive.org/details/BollettiniEcn e quella di Pisa che però non ci risulta essere disponibile in Rete.
[8] Voccia, cit.
[9] Pepsy, “Jurassic network”, “Umanità Nova”, n.23, 2018. https://umanitanova.org/?p=8150
[10] Per “normale” qui intendiamo una persona diversa dai cosiddetti “influencer” e da quelli che sulla Rete ci lavorano.
[11] “Nebbia” https://nebbia.lab61.org/about; “Cisti” https://mastodon.cisti.org/about; “Snapj” https://snapj.saja.freemyip.com/about

PS
Per comprendere meglio da dove salta fuori il pippone precedente si leggano, in ordine:
“Il potere della comunicazione”
“Potere e comunicazione sociale”
“Se Mastodon avesse miliardi di utenti”
tutti pubblicati sul settimanale anarchico “Umanità Nova” nel 2019

La luna, il dito e tutto il resto

Oramai tutti dovrebbero essersi abituati alla politica urlata, un modo come un altro per nascondere la povertà di contenuti dei discorsi, adottata con determinazione da quasi tutti i politici. Per cui merita il giusto disinteressa la dichiarazione [1] di una delle componenti dalla trinità di governo italiana a proposito della decisione presa il 12 settembre scorso dal Parlamento Europeo. Anche perché provando ad approfondire, anche solo in parte, l’argomento si scopre facilmente che il voto di Strasburgo non è certo un avvenimento di portata così drammatica o storica. La proposta di direttiva approvata la scorsa settimana riguarda principalmente la pubblicazione su Internet di un contenuto coperto dalle leggi sul copyright senza che venga pagato un compenso ai detentori dei diritti. Questa proposta era già stata presentata e bocciata qualche mese orsono, poi dopo che sono stati ammorbiditi alcuni dei passaggi più criticati, è passata con un discreto scarto di voti. I punti cardine della proposta sono sostanzialmente due: il divieto di pubblicare in Rete qualcosa che sia più di un link a un qualsiasi contenuto coperto dalle leggi sul diritto d’autore; l’obbligo per i gestori delle piattaforme che pubblicano contenuti degli utenti di dotarsi di filtri per individuare e bloccare quelli che violano il copyright. Per prima cosa va chiarito, come hanno fatto alcuni [2] che questa decisione del Parlamento non cambia ancora un bel nulla. Prima che la direttiva entri in vigore passerà non poco tempo: per prima cosa ci saranno gli incontri (riservati) tra gli esponenti dei Governi europei e i rappresentanti del Parlamento per stendere la versione finale e ufficiale della direttiva, poi ciascuno degli stati dovrà inserire le norme previste all’interno della propria legislazione nazionale. Tenuto conto che tra meno di un anno ci saranno le elezioni europee è facile prevedere che l’applicazione concreta della direttiva non avverrà prima di un anno o due. In secondo luogo, come spesso accade, gli sbadati legislatori dimenticano che Internet non è uno strumento di comunicazione che riconosce o rispetta le frontiere degli stati e quindi non ha molto senso emanare dei provvedimenti che hanno una reale forza di legge solo in alcuni paesi. Infine, pretendere di regolamentare la pubblicazione di contenuti attraverso dei filtri è una pia illusione, come ben sanno anche in Cina dove alcuni dei filtri che censurano l’applicazione di messaggeria istantanea più usata in quel paese sono facilmente aggirabili [3].

Questo non significa che la proposta di direttiva sia qualcosa da prendere alla leggera, ma solo che siamo ancora in una fase preliminare e che, prima della sua reale applicazione, ci potrebbero essere ancora modifiche e cambiamenti.

Molto più preoccupante invece è la proposta approvata, sempre nella stessa data, ma dalla Commissione Europea per “prevenire la diffusione della propaganda terrorista online” [4], notizia della quale si è sentito parlare molto di meno. Che si tratti di qualcosa di pericoloso lo si capisce persino dalle note introduttive al testo della legge, nelle quali si può leggere che “La proposta può potenzialmente avere impatto su alcuni diritti fondamentali: (a) diritti del fornitore di contenuti: diritto alla libertà di espressione, diritto alla protezione dei dati personali, diritto al rispetto della vita privata e familiare, il principio di non discriminazione e il diritto di avere un rimedio efficace; (b) diritti del fornitore di servizi: diritto alla libertà di condurre un’impresa; diritto ad un rimedio efficace; (c) i diritti di tutti i cittadini: e il diritto alla libertà di espressione e di informazione.”

Anche solo la lettura di una sua breve presentazione, disponibile anche in italiano, fornisce una misura della sua pericolosità. Per esempio viene ricordato che “Una volta adottate dal Parlamento europeo e dal Consiglio, le nuove norme si applicheranno a tutte le società del web che offrono servizi nell’UE, dovunque sia ubicata la loro sede e indipendentemente dalle loro dimensioni.” [5] Questo, al contrario della Direttiva precedente che colpirebbe invece, a quanto si capisce, esclusivamente i “colossi” della Rete.

Lo scopo del provvedimento è quello di stabilire delle regole che si applicano ai fornitori di servizi al fine di prevenire la diffusione tramite le loro risorse di contenuti terroristici e quello di indicare agli stati membri dell’UE le misure da attivare volte a identificare i contenuti di cui sopra e rimuoverli da Internet. Nel testo, tra le altre cose, si fornisce anche una definizione di quello che deve intendersi per “contenuto terroristico”: incitamento, promozione o esaltazione alla commissione di atti di terrorismo; incoraggiamento alla partecipazione ad atti di terrorismo; promozione delle attività di gruppi terroristici; istruzioni, manuali e tecniche finalizzati alla commissione di atti di terrorismo. Appare evidente che si tratta di un tentativo alquanto grossolano di limitare la libertà di espressione in quanto un conto sono i proclami e un altro sono gli “atti” di terrorismo, oltretutto quello che uno stato può sanzionare come “terrorismo” può essere considerato da un altro come “resistenza”. Le autorità competenti potranno inviare ai fornitori di servizi delle ordinanze ingiungendo la rimozione o l’oscuramento dei contenuti proibiti. E i fornitori di servizi sono obbligati ad “avere un punto di contatto designato raggiungibile 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, incaricato di rimuovere prontamentei contenuti (entro un’ora [sic!] dal ricevimento dell’ordine di rimozione)”. Sono anche “invitati” ad attivare delle misure volte ad automatizzare il processo di individuazione di tali contenuti e ad informare le autorità sui sistemi adottati. Nel caso questi non vengano considerati sufficienti ne potranno essere imposti altri ritenuti più efficaci. I contenuti oggetto delle ordinanze della magistratura andranno conservati per sei mesi, o per un tempo maggiore quando richiesto. Sono previste delle sanzioni, di carattere pecuniario (“fino al 4% del fatturato complessivo nell’ultimo esercizio”) a carico degli inadempienti.

Questo provvedimento, a differenza di quello sul copyright, potrebbe avere un percorso molto più veloce in quanto dovrebbe essere presentato a una riunione (19-20 settembre) della Commissione Europea. Inoltre essendo un Regolamento entrerà in vigore, automaticamente e in tutti i paesi dell’Unione, sei mesi dopo la sua pubblicazione, senza necessità di essere ratificato dai diversi parlamenti.

Almeno due cose accomunano entrambe le norme. Riguardano reati di tipo sostanzialmente immateriale, pubblicare un articolo ripreso da un giornale non è la stessa cosa che rubare una copia del giornale da una edicola. E, in tutte e due i casi, viene fortemente incentivato l’uso di filtri automatici come sistema per scoprire e bloccare i contenuti proibiti.

Ed è proprio quest’ultimo uno dei punti centrali, quello della implementazione forzata dalla legge di una serie di filtri, su copyright, terrorismo, e poi chissà che altro, che in pratica avranno solo l’effetto di ostacolare la libertà di espressione e alla fine trasformeranno Internet in un unico e immenso iper mercato elettronico.

Pepsy

 

Riferimenti

[1] https://www.ilpost.it/2018/09/12/luigi-di-maio-direttiva-copyright/
[2] https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/09/12/direttiva-copyright-un-bene-o-un-male-cosa-rischia-ora-il-diritto-dautore-in-europa/4621081/
[3] https://citizenlab.ca/2018/08/cant-picture-this-an-analysis-of-image-filtering-on-wechat-moments/
[4] https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/soteu2018-preventing-terrorist-content-online-regulation-640_en.pdf
[5] https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/soteu2018-factsheet-terrorist-content_it.pdf

Jurassic network

Mettere in Rete uno strumento di comunicazione all’inizio dell’estate aggiunge quel pizzico di incoscienza a una impresa che, già in partenza, non è certo di quelle più facili, se poi a fare una mossa del genere è un “gruppo di lavoro di hacktivist* e militant” che fanno “parte di centri sociali, circoli anarchici, esperienze sociali autogestite e hacklab” allora si tratta davvero di una iniziativa che merita attenzione.

Quella che segue è una recensione “calda” scritta dopo aver partecipato e aver seguito per quasi tre mesi il sito https://mastodon.bida.im

Lo scopo del gruppo di gestione è quello di costruire una alternativa ai “social network commerciali” permettendo ai partecipanti di poter accedere a notizie, pubblicare contenuti, dialogare con altri ma anche “generare kaos”. Il tutto cercando di garantire un certo grado di anonimato e nessuna censura preventiva. Esistono naturalmente dei limiti, delle cose che “non si possono fare”, che sono più o meno quelle caratteristiche dei servizi e dei server di movimento: nessuno spazio a contenuti razzisti, sessisti e fascisti (“meme, tags e rappresentazioni allusive comprese”), messaggi di propaganda partitica istituzionale o esclusivamente commerciali, messaggi di insulti o minaccia. Due discriminanti sono invece abbastanza nuove, in quanto non si possono pubblicare “messaggi che facciano riferimento a contenuti di facebook” o “messaggi senza considerare che gli utenti possono avere una sensibilità diversa” dalla propria. La prima trova una chiara e condivisibile motivazione nel tentativo di non alimentare ulteriormente la penosa deriva che da tempo affligge individualità e collettivi che continuano a utilizzare determinati “social media” come se questi fossero necessari o utili. La seconda è decisamente paradossale in quanto è davvero difficile conoscere in anticipo le diverse sensibilità di chi potrebbe avere problemi guardando o leggendo quello che pubblichiamo. Consci di questo fatto, i gestori consigliano di aggirare il problema usando il “content warning”, ovvero un avviso che dovrebbe salvare capra e cavoli.

Consigliamo agli interessati la lettura integrale del “Manifesto del gruppo di gestione” [1] per conoscere in modo più completo le motivazioni che stanno alla base del progetto che qui ci siamo limitati a descrivere in modo molto sintetico.

Questo strumento di comunicazione è molto simile a quello, ben più noto, chiamato “Twitter” [2] che negli ultimi mesi, grazie anche al “nuovo” governo, ha preso – insieme a “FaceBook” – quello che fu il posto dell’Istituto Luce [3] ai tempi del fascismo. Dopo aver creato il proprio account è possibile pubblicare testi (fino a 500 caratteri), immagini e filmati, di “seguire” un altro utente, di inserire un contenuto tra i propri preferiti o metterlo in evidenza. L’interfaccia mostra, normalmente, tre colonne di contenuti distinti: la prima contiene quello che pubblichiamo noi o le persone che “seguiamo”, sulla seconda si trovano le segnalazioni dei contenuti che direttamente o indirettamente ci coinvolgono e la terza raccoglie tutto quello che viene pubblicato a livello “locale” dagli altri utenti. É possibile visualizzare una ulteriore colonna dove è trovano posto i contenuti di un altro server tra quelli “federati” o di siti scelti dagli amministratori. Oppure di una istanza scelta fra quelle esistenti in Rete [4].

Uno degli aspetti che rende interessante “Mastodon” è che si basa su “codici sorgenti e protocolli aperti”, vale a dire su programmi e modalità di comunicazione non di proprietà privata di qualche colosso informatico. Altra cosa interessante è che, contrariamente ad altri “social”, non esiste uno o più server centralizzati ma una serie di istanze singole, che in pratica possono anche essere ospitate su un server personale, che però si possono “federare”, vale a dire che possono permettere ai loro utenti di interagire tra loro. Quindi un “social” decentrato e senza padroni che spiano e vendono i dati degli utenti.

“Mastodon”, che si può usare anche da cellulare, è nato alla fine del 2016, a fine agosto contava circa più di seimila istanze, sparse in tutto il mondo e quasi un milione e mezzo di utenti registrati [5], un migliaio dei quali sono su mastodon.bida.im.

L’uso del programma è abbastanza intuitivo, così come la configurazione delle preferenze, appena un po’ più complicato capire bene il tipo di visibilità di quello che si pubblica a seconda delle impostazioni. L’aspetto grafico, sia sui computer che sui cellulari è piacevole ed è possibile apportargli qualche personalizzazione. Un punto di forza di “Mastodon” è la capacità di importare contenuti pubblicati altrove, per esempio chi usa la piattaforma “noblogs.org” può decidere di inviare automaticamente su “mastodon.bida.im” quello che pubblica sul suo blog.

Non mancano ovviamente alcuni punti critici. Per prima cosa questo strumento non è paragonabile a “Indymedia”, tantomeno a “FaceBook” e non solo per una questione di numeri. “Mastodon” non è il mezzo migliore per fare del giornalismo indipendente o per mantenere i contatti con gli ex amici di scuola. L’interazione fra gli utenti non è facile da seguire e quindi non può essere usato in modo proficuo per qualsiasi discussione che non si limiti a un paio di battute. L’interazione con gli utenti di altre istanze, se pure possibile, è comunque regolata dai gestori che possono decidere con quale altro sito federarsi o quale utente bloccare. Infine, ma questo è proprio di tutti gli strumenti del genere, il sistema collasserebbe (dal punto di vista informativo) se tutti gli utenti iniziassero a usarlo in maniera davvero intensiva. In definitiva si tratta di uno strumento che potrebbe essere anche molto utile se a partire da esso nasceranno “istanze” che non siano solo virtuali.

L’estate dura ancora qualche altra settimana e probabilmente molti si accorgeranno solo fra un po’ dell’esistenza di questo buffo paleo elefante che ha deciso di entrare nel negozio di porcellane. Ne riscriveremo sicuramente al primo soprammobile in frantumi.

 

[1] https://mastodon.bida.im/about/more

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Twitter

[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Istituto_Luce

[4] https://instances.social

[5] https://dashboards.mnm.social/