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Aaron Swartz. La conoscenza per tutti

La scorsa settimana in molti hanno ricordato il suicidio di Aaron Swartz avvenuto l’11 gennaio 2013, due giorni dopo che era stata respinta una istanza presentata dai suoi legali per evitargli una condanna che poteva arrivare fino a 35 anni di carcere e 1 milione di dollari di multa.

La sua biografia sembra proprio quella del piccolo genio informatico che a 13 anni vince un premio di mille dollari per un progetto di una biblioteca collaborativa on-line, frequenta Atenei prestigiosi come Harward e la Stanford University, è coinvolto nella creazione di strumenti di programmazione usati ancora oggi e nello sviluppo di start-up commerciali. A leggerla sembra essere la classica storia di una persona destinata a mettere in piedi un progetto che lo renderà ricco e famoso prima dei trenta anni. Ma la vita di Swartz ha un finale diverso, probabilmente anche a causa della sua sensibilità ai problemi sociali, una caratteristica che non sempre si associa alle menti brillanti.

Nel 2007, chiamato a tenere una conferenza presso il NIT di Calcutta, aveva intitolato il suo intervento “Come fare a trovare un lavoro come il mio” e così rispondeva alla sua stessa domanda:
“E allora, in che modo sono arrivato a una occupazione simile? Indubbiamente, il primo passo è dotarsi dei geni giusti: sono nato bianco, di sesso maschile, statunitense. La mia famiglia era benestante e mio padre era già coinvolto nell’industria informatica. Sfortunatamente, non conosco nessun modo per poter scegliere queste cose, quindi non è di grande aiuto.” [1]

La coscienza di essere un privilegiato invece che spingerlo verso lo sfruttamento egoistico del suo status lo ha portato, fin dall’inizio, a indirizzare il suo agire verso la condivisione della conoscenza una attitudine che ha segnato anche l’episodio all’origine della sua drammatica fine. A partire dal 2008 si è sempre impegnato in qualche iniziativa a favore della libertà di informazione e della condivisione della conoscenza. Impegno non solo teorico ma concreto, partecipando direttamente o con altri alla creazione di numerosi progetti legati all’attivismo digitale.

Dai documenti relativi al suo processo risulta che Aaron Swartz aveva collocato un computer all’interno di un ripostiglio del “Massachusetts Institute of Technology” (MIT) e lo aveva connesso alla rete dell’Istituto. Aveva programmato quel computer in modo che scaricasse automaticamente dalla Biblioteca digitale “JSTOR” [2] i file di articoli scientifici disponibili solo agli utenti interni. I proprietari della Biblioteca dichiararono che, tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, vennero scaricati circa 3 milioni e mezzo di file prima che Aaron venisse arrestato e il computer spento.

Una delle ragioni dell’accanimento giudiziario contro l’autore di questo “reato” è dovuto sicuramente alle leggi che proteggono l’enorme giro di affari che sta dietro, ieri come oggi, al mercato delle pubblicazioni scientifiche in formato elettronico. Una fonte di profitto quasi invisibile ai non addetti ai lavori.

Nel 2021, una qualsiasi istituzione (Università, Biblioteca, Laboratorio) che voglia dare la possibilità di accesso ai propri utenti a libri o riviste scientifiche in formato elettronico deve firmare contratti per abbonamenti che costano anche centinaia di migliaia di euro all’anno. Gli editori che pubblicano in formato digitale sono più di uno e quindi le cifre che vengono spese in questo settore arrivano anche a milioni di euro all’anno e non tutte le istituzioni, soprattutto quelle dei paesi più poveri, possono permettersi di sostenerle.

Aaron Swartz sapeva bene che “l’informazione è potere” [3] e nella sua breve e intensa vita si è sempre adoperato per contrastare la “privatizzazione” del sapere che, in campo scientifico, significa anche costringere nell’ignoranza chi, impegnato nella ricerca della conoscenza, non ha le risorse economiche per accedere ai risultati delle ricerche internazionali. Non a caso Swartz ha collaborato alla creazione delle specifiche dell’RSS [4] e alla creazione delle “Creative Commons Licenses” [5], due risorse importanti per coloro che lottano per la condivisione della conoscenza senza fini di lucro.
Anche grazie al suo impegno e alla sua lotta, insieme a quella di altri e altre meno noti, oggi anche le più tradizionali istituzioni hanno iniziato a occuparsi – in modo più o meno serio – di “accesso aperto” e questa tendenza si è talmente estesa che i padroni del “copyright” hanno persino inventato dei meschini sotterfugi per continuare a mantenere le loro posizioni di potere economico. Per fare un esempio negli ultimi anni i grossi editori di pubblicazioni elettroniche hanno iniziato a proporre ai loro clienti i cosiddetti “contratti trasformativi” che avrebbero lo scopo di permettere la transizione del sistema di comunicazione scientifica da “chiuso” ad “aperto” (sic). Questo genere di contratti però si applicano solo ad alcune categorie di riviste. Questo ha provocato (non ne dubitavamo) un aumento dei guadagni per gli editori: se una Università è abbonata a una rivista che prevede l’accesso libero ad alcuni degli articoli disponibili dovrà pagare, oltre che il costo dell’abbonamento, anche una cifra (non simbolica) per ognuno degli articoli che deciderà di rendere disponibili a tutti. In altre parole pagherà due volte per lo stesso articolo. Molte, se non forse tutte sicuramente la maggior parte delle Biblioteche delle Università italiane sono cascate in questa trappola.

L’ALA (“American Library Association”) quattro mesi dopo la morte, assegnò a Swartz il premio “James Madison” un inutile riconoscimento alla memoria di un giovane che aveva avuto il coraggio di praticare quello che altri, ma solo a parole, ritengono un diritto di tutti.

Aaron Swartz ha lasciato una eredità, che pesa come un macigno soprattutto su coloro che oggi si riempiono la bocca blaterando di “accesso libero” alla conoscenza, sperando di continuare a mantenere le proprie quote di fatturato.

A noi ha lasciato il compito di continuare la sua lotta.

Pepsy

 

Riferimenti

[1] Il link http://aaronsw.jottit.com/howtoget dove era archiviato il discorso citato al momento (11 gennaio 2021) sembra off-line, una copia la si può comunque trovare cercandolo sull’Internet archive.

[2] “JSTOR è una biblioteca digitale fondata nel 1995 a New York. In origine conteneva copie digitalizzate di vecchie annate di riviste accademiche. Oggi contiene anche libri e pubblicazioni correnti. A questo archivio accedono migliaia di istituzioni da più di 160 paese, nella maggior parte dei casi pagando un abbonamento, esiste anche una parte dell’archivio ad accesso libero. Nel 2015 le entrate della biblioteca sono state di 86 milioni di dollari” (vedi https://en.wikipedia.org/wiki/JSTOR)

[3] La frase è all’inizio del suo “Guerrilla Open Access Manifesto” leggibile qui https://aubreymcfato.com/2013/01/14/guerrilla-open-access-manifesto-aaron-swartz/

[4] RSS (sigla di RDF Site Summary) è uno dei più popolari formati per la distribuzione di contenuti Web (vedi https://it.wikipedia.org/wiki/RSS).

[5] Le “Licenze Creative Commons” sono delle licenze riguardanti il “diritto d’autore” indirizzate in senso contrario all’esclusiva monetarizzazione (vedi https://it.wikipedia.org/wiki/Licenze_Creative_Commons).

 

Pubblicato su “Umanità Nova“, n.2 del 31/01/2021

La Rete al tempo della grande paura

Tutti quelli che usano quotidianamente un computer, un telefonino o un tablet per comunicare con gli altri stanno partecipando oggi, volenti o nolenti, al più grande esperimento di psicologia sociale applicata della storia.

La pandemia in atto ci ha messo tutti in una situazione epocale non solo per la portata globale di quello che sta accadendo, ma anche perché si accompagna a misure di separazione, contenimento e segregazione fisica che non hanno precedenti moderni in quanto a estensione geografica e numero di persone coinvolte. Questa condizione eccezionale sta avendo e avrà sicuramente un impatto non trascurabile sia sui singoli individui che sui comportamenti collettivi e non solo per quello che riguarda l’uso degli strumenti di comunicazione.

Il primo effetto è stato che l’uso della Rete è aumentato in modo significativo, per il momento soprattutto in Italia e in Europa, ma già dai primi giorni alcuni dei più noti servizi commerciali che trasmettono video, film e serie televisive hanno annunciato di aver deciso di limitare la qualità delle immagini trasmesse per non contribuire all’aumento del traffico dati. E sono numerosi gli articoli che segnalano un notevole incremento delle video chiamate, sia per motivi di lavoro che personali. I più catastrofici paventano addirittura un possibile “collasso” di Internet.

In uno scenario del genere, in una situazione della quale non è possibile prevedere la durata e da cosa sarà seguita, si collocano le vite personali ma anche quelle collettive dei gruppi, organizzati o meno, che fino a ieri potevano riunirsi nella vita reale e che oggi non possono più farlo.

Semplificando al massimo ogni persona appartiene in questo momento a una di queste categorie: coloro che continuano a uscire quotidianamente per motivi di lavoro; coloro che escono saltuariamente e infine quelli che restano chiusi in casa. In tutti e tre i casi le persone hanno comunque aumentato l’uso della comunicazione digitale, perché anche chi esce di casa ogni giorno è costretto a usare quelle modalità se vuole restare in contatto con quelli che hanno meno libertà di movimento. Le reazioni dei singoli a questa costrizione cambia a seconda delle caratteristiche della personalità e del rapporto si aveva e si ha con la tecnologia. Chi già in precedenza utilizzava comunemente strumenti digitali avrà avuto meno problemi, ma sicuramente si sarà dovuto scontrare con il “divario digitale” nel momento in cui ha provato a interagire con altri che invece non sono altrettanto abili. Una parte delle persone starà sicuramente acquisendo, per forza di cose, una maggiore capacità di usare computer e connessioni ma ci saranno anche quelli condannati a vivere in un isolamento ancora maggiore in quanto non sono in possesso o hanno problemi nell’uso di determinati strumenti.

Una situazione del genere, alquanto diversificata e mai verificatasi in precedenza, rende difficile una valutazione dell’impatto che avrà a medio e lungo termine sul rapporto tra i singoli e la comunicazione via computer. Ma soprattutto dell’impatto che avrà sui rapporti sociali in generale. In altre parole il risultato dell’esperimento nel quale stiamo vivendo lo conosceremo, forse, solo fra molto tempo.

Volendo a tutti i costi cercare un aspetto positivo in questa situazione si potrebbe sostenere che l’uso forzato di computer e della Rete farà aumentare il numero di persone capaci di usarli in modo meno passivo e quindi farà diminuire il “divario digitale”. L’altra faccia della medaglia invece potrebbe ritenere questo momento come quello più favorevole allo sviluppo di una maggiore dipendenza individuale da mezzi di comunicazione che nella quasi totalità dei casi sono stati creati e vengono gestiti da organizzazioni gerarchiche e basate sullo sfruttamento. Strumenti sempre più usati per il controllo della popolazione e per la diffusione capillare dell’ideologia dominante. Probabilmente si verificheranno entrambe le cose, e il prevalere di un aspetto sull’altro contribuirà non poco a determinare il risultato finale.

Da tempo è noto che i rapporti interpersonali che passano esclusivamente tramite la comunicazione mediata da computer non sono salutari a meno che non siano dovuti a situazioni particolari e specifiche. Un conto è una video chiamata con qualcuno che si trova a migliaia di chilometri di distanza e che non si può raggiungere in altro modo, altro è con chi abita a due isolati di distanza. Purtroppo oggi il secondo caso è diventato molto più frequente ma, essendo causato da un evento eccezionale, è vissuto come qualcosa di imprevedibile e soprattutto momentaneo. In realtà c’è il rischio concreto che determinate modalità di interazione possano diventare quelle più abituali anche quando l’emergenza sarà finita.

Dal punto di vista collettivo gli effetti si amplificano e complicano in quanto anche i singoli si trovano a interagire in un contesto più ampio quando partecipano, in modo più o meno attivo, a uno dei tanti “social”. Oggi sono ancora troppe le realtà che usano strumenti di comunicazione commerciali tipo “FaceBook”, “Twitter”, “Instagram” o similari per la loro attività sociale e politica. Mettendo da parte tutte le critiche fatte e che si potrebbero ancora fare a questa attitudine va tenuto conto, che in questo contesto, anche i famigerati “social media” sono diventati uno, ma non certo l’unico possibile, dei canali che possono essere usati per continuare a mantenere almeno un minimo di collegamento tra le realtà politiche organizzate e l’insieme dei loro interlocutori. Ma sarebbe comunque, come sempre, un simulacro di socialità rispetto ai contatti personali che dovrebbero avvenire nel mondo reale.

Reagire all’isolamento è il primo compito che ci dobbiamo dare, cercare di aggirare – anche solo per qualche momento – le regole che ci vorrebbero chiusi in casa 24 ore al giorno o che ci costringono a uscire solo per andare a lavorare, magari in un contesto dove non sono state prese adeguate misure di sicurezza. Ma, oggettivamente, è difficile pensare in questo momento a un modo, che non sia dannoso per qualcuno, per ritornare a incontrarsi fuori. Anche per questo siamo, come mai prima, costretti a usare computer e Rete per comunicare.

Un modo per non subire passivamente quello che accade e per cercare di attenuarne gli effetti negativi potrebbe essere quello di trasformare i momenti di reclusione e isolamento sociale in una buona occasione per studiare come utilizzare i sistemi di comunicazione vecchi e nuovi. Per capire se e come sia possibile usare in modo non convenzionale alcuni di quelli esistenti ma, soprattutto, spendere questo tempo sospeso lavorando alla creazione di ambiti di collegamento che abbiano caratteristiche non gerarchiche e commerciali. Qualcosa che possa servire non solo durante una emergenza ma anche quando questa sarà passata.

Non approfittare di questa occasione significa regalare alle strutture dello sfruttamento la migliore occasione possibile per trasformare la maggior parte della popolazione in individui dipendenti in modo assoluto e acritico da determinati strumenti e modalità di comunicazione e dalla propaganda che oggi passa soprattutto attraverso l’uso che i politici e il Governo fanno dei “social media”. Un buon esempio di questo scenario e dei futuri possibili è dato dalla discussione sull’uso di applicazioni da installare sul cellulare che siano in grado di mantenere in memoria tutti gli spostamenti personali. Oggi potrebbero essere usate per tenere sotto controllo una pandemia, domani per ragioni molto meno salutari.

Molti sono convinti che chi usa molto Internet vive in una specie di “bolla” ideologica personale dove viene esposto quasi esclusivamente alle informazioni filtrate in base al suo profilo digitale. Da un mese a questa parte questa “bolla” individuale si è allargata a dismisura, diventando in qualche modo collettiva, in quanto non c’è possibilità per alcuno di scampare all’unico tema del giorno, un “trend topic” capace di filtrare completamente tutto il resto dei problemi esistenti in una società divisa in classi. Già oggi le comunicazioni ufficiali riescono invece a penetrare molto più ampiamente e in profondità rispetto a ieri proprio a causa della specificità del momento e contrastare questa situazione dovrebbe essere un altro dei “compiti a casa” che ci dovremmo dare.

Uno dei miti fondanti racconta che “Arpanet” che sia stata creata per resistere a un attacco nucleare e questo perché in quegli anni la grande paura aveva l’aspetto di una guerra a base di bombe nucleari. Oggi gli scenari e le paure collettive sono decisamente diversi, come pure è cambiata la Rete nel corso degli anni e adesso il nemico è invisibile e comune a tutti. Probabilmente, alla fine di questa crisi, quella che sarà cambiata sarà proprio Internet.

Pepsy

Pubblicato su “Umanità Nova“, n.12 del 12/04/2020

A come Asocial

(Il testo che segue fa riferimento a un inizio di dibattito partito da un articolo pubblicato sul settimanale anarchico “Umanità Nova”. In fondo al testo i collegamenti.)

Replicando al mio intervento [1] sul tema della comunicazione sociale Enrico [2] sostiene la necessità di usare anche strumenti del potere per riprenderne “il controllo per quanto possiamo: in alcuni casi di più, in altri casi di meno. (…) in alcuni casi con maggiore libertà, in altri con meno” [3]. Più avanti afferma che “Da sempre, il modo migliore per lasciare al potere il loro controllo è stato ritirarsi dalla presenza antagonista al loro interno.” [4].

Posizioni del genere non sono certo una novità, credere che la presenza all’interno di ambiti di relazione e di comunicazione creati e/o gestiti dal potere possa portare dei benefici, anche minimi, all’agire rivoluzionario è una convinzione dura a morire. Sia chiaro che qui non si tratta di rivendicare una qualche forma di purismo ideologico da opporre di chi accetta di “sporcarsi le mani”, ma piuttosto della constatazione, concreta, del fatto che pratiche di questo tipo non abbiano mai portato a nulla di positivo.

Ci sono invece stati nel tempo diversi esempi, restando nel campo della comunicazione, che mostrano in modo evidente quanto la creazione e la gestione di strumenti di comunicazione esterni (per quanto possibile) alle dinamiche istituzionali abbiano contraddistinto momenti particolarmente significativi nella storica lotta degli oppressi. Ricordiamone brevemente qualcuno.

Sicuramente tutti sanno che esiste ancora un quotidiano di carta, “il manifesto” (1971-) che venne fondato anche per creare un mezzo di comunicazione alternativo a quelli ufficiali, molti sanno che in quegli anni ci furono anche altre esperienze simili, come “Lotta Continua” (1972-1982) e il “Quotidiano dei Lavoratori” (1974-1979). Probabilmente invece sono in meno a sapere che nel febbraio del 1979 alle tre testate ricordate sopra se ne aggiunsero, anche se solo per poche settimane, altre due: “Ottobre” e “La Sinistra”. Portando a ben cinque il numero dei quotidiani che facevano riferimento alla cosiddetta “sinistra rivoluzionaria”. Sebbene tutti questi giornali avessero come punto di riferimento un partito o un gruppo più o meno “extraparlamentare” i loro contenuti non sempre erano in perfetta sintonia con la linea dettata dai rispettivi gruppi dirigenti e indubbiamente quelle esperienze hanno rappresentato il punto più alto del tentativo dei movimenti di quegli anni di fare informazione indipendente.

Quasi contemporaneamente, la stagione delle “radio libere”, che al suo interno comprendeva le radio di movimento, è un’altra dimostrazione che sebbene creare e autogestire i propri mezzi di comunicazione sia un compito faticoso e difficile non sia del tutto stato inutile in quanto proprio a quelle esperienze si è riannodata, un quarto di secolo dopo, la storia di “Radio GAP” che ha funzionato a Genova durante le giornate del 2001 e oggi quelle di radio come “Radio Wombat”, che addirittura trasmette via web e sulle AM.

Enrico ha scritto che il suo articolo “era centrato sulla comunicazione dei movimenti verso l’esterno e, magari mi sbaglierò, la stagione delle BBS era legata ad una comunicazione rivolta sostanzialmente verso l’interno ed in più mediata da specialisti.” [6]
Le BBS, quelle che facevano riferimento al movimento, erano indirizzate sia a una comunicazione interna che esterna in quanto sono state il primo strumento di comunicazione realmente interattivo. Non si trattava, almeno non nelle intenzioni di chi le aveva create, di ambienti di comunicazione riservati agli attivisti o agli specialisti ma a chiunque fosse in possesso di un computer, una linea telefonica e un modem. Addirittura, visto che in quegli anni l’informatica era ancora uno strumento per pochi privilegiati, alcuni dei collettivi che gestivano le BBS legate a ECN pubblicavano e diffondevano fogli fotocopiati nei quali riportavano una parte delle informazioni circolate in formato elettronico destinate a chi non aveva, non poteva o non voleva usare un computer [7]. Cercando in questo modo di colmare il divario tra chi aveva accesso a quello strumento e chi non lo aveva e contemporaneamente di aumentare l’ambito di diffusione delle informazioni.
Si è trattato sicuramente di esperienze limitate ma, si deve tener presente che in quegli anni la diffusione dei personal computer e degli strumenti della comunicazione elettronica era (soprattutto per ragioni economiche) appena agli inizi e quindi la stragrande maggioranza della popolazione non avrebbe comunque potuto accedervi.

Il discorso non cambia passando nel campo della comunicazione elettronica su Internet che segue direttamente quella delle BBS: durante gli anni migliori di “italy.indymedia” (2001-2006), una iniziativa strettamente collegata ai movimenti “no-global” erano i giornalisti dei mezzi di comunicazione ufficiali a doversi informare su quello che veniva pubblicato su un sito decisamente fuori dal sistema mediatico ufficiale [5], piuttosto che il contrario come avveniva fino a quel momento e ancora avviene oggi sui cosiddetti “social” dove è prassi comune riprendere e rilanciare quanto diffuso (“bufale” comprese…) dai mezzi di disinformazione istituzionali.

In pratica, nell’ultimo mezzo secolo, almeno una parte di noi ha preso piena consapevolezza della necessità di dotarsi di strumenti di comunicazione indipendenti da quelli commerciali e istituzionali. Addirittura nella comunicazione elettronica questa consapevolezza ci ha permesso di usare questi nuovi strumenti molto prima che la Rete diventasse, quasi esclusivamente, un canale commerciale, di controllo e di comunicazione istituzionale.

Oggi questa consapevolezza sembra perduta, visto che sono in troppi a pensare che sia necessario essere presenti nei “social” in quanto in questo modo si raggiungono molte più persone e sono in molti a snobbare i tentativi fatti da chi invece ritiene che sia più importante impegnarsi a fondo per dotarsi di mezzi di comunicazione autogestiti.

Enrico, a proposito di “Mastodon” ha scritto: “Un sistema come Mastodon, per fare solo un esempio, è ottimo per la comunicazione interna di movimento: da un lato non ha algoritmi deformanti, dall’altro non si è immersi dal “rumore” della comunicazione degli “esterni” – meme dei gattini od altro.” [8]
Non è proprio così. “Mastodon” è uno strumento di comunicazione molto simile a “Twitter” e quindi adatto sia alla comunicazione esterna che interna. Inoltre, chiunque abbia frequentato almeno per qualche giorno la prima istanza di “Mastodon” creata da compagni [9] o anche solo letto i suoi documenti fondativi si sarà accorto che sono presenti sia gli immancabili gattini che i “meme” e che queste presenze hanno una precisa ragione d’essere.

Pensare di poter agire su due livelli, sia utilizzando dall’interno strumenti del nemico sia costruendone di alternativi, è una posizione perdente in partenza e anche in questo caso il motivo non riguarda qualche bizzarra purezza ideologica ma i meccanismi di funzionamento della comunicazione e, in particolare, quella mediata da computer.

É ben noto che è impossibile utilizzare, per più tempo e non episodicamente, due “social” diversi. Se ne sono accorti persino i gestori di Google che, nel corso degli ultimi anni, hanno provato più volte a fare concorrenza a “FaceBook” (FB), sperando nel migliore dei casi in una migrazione degli utenti verso la loro piattaforma o, nel peggiore, credendo possibile una loro condivisione. Tentativi falliti miseramente perché una persona “normale” [10] non può usare contemporaneamente due “social”. Usare FB significa non poter usare, realmente, altro di simile e vuol dire quindi partecipare concretamente all’aumento del potere e dell’influenza di uno strumento istituzionale e commerciale e nello stesso tempo contribuire al probabile fallimento di una alternativa.

L’obiettivo da porsi quindi non è quello di far raggiungere a “Mastodon” il miliardo di utenti, una logica che non ha molto senso, ma quello di creare i nostri strumenti di comunicazione autogestiti, decentralizzati e federati, seguendo una pratica che ci appartiene da sempre.

Per fortuna, nonostante il pervicace attaccamento di molti compagni ai famigerati “social” a un anno di distanza sono nate in Italia altre istanze di “Mastodon” vicine ai movimenti: “Nebbia”, “Cisti” e “Snapj” [11]. Un piccolo segnale che non tutti si sono lasciati ingabbiare volontariamente, altre possibilità offerte a chi vuole uscire dal recinto.

Pepsy

 

Riferimenti
[1] Pepsy, “Potere e Comunicazione Sociale”, Umanità Nova, n.23, 2019. https://umanitanova.org/?p=10483
[2] Voccia, Enrico “Se Mastodon avesse miliardi di utenti”, “Umanità Nova”, n.24, 2019. https://umanitanova.org/?p=10558
[3] Voccia, cit.
[4] Voccia, cit.
[5] Un sito che nel mese di ottobre del 2006 – vale a dire alla fine della sua storia – ha contato 1.140.716 visitatori.
[6] Voccia, cit.
[7] Ci sono almeno tre situazioni a nostra conoscenza che lo hanno fatto: quella di Milano, la cui raccolta digitalizzata (1991-1995) si può trovare qui https://grafton9.net/bollettini-ecn-milano, quella di Bologna che si può trovare qui https://archive.org/details/BollettiniEcn e quella di Pisa che però non ci risulta essere disponibile in Rete.
[8] Voccia, cit.
[9] Pepsy, “Jurassic network”, “Umanità Nova”, n.23, 2018. https://umanitanova.org/?p=8150
[10] Per “normale” qui intendiamo una persona diversa dai cosiddetti “influencer” e da quelli che sulla Rete ci lavorano.
[11] “Nebbia” https://nebbia.lab61.org/about; “Cisti” https://mastodon.cisti.org/about; “Snapj” https://snapj.saja.freemyip.com/about

PS
Per comprendere meglio da dove salta fuori il pippone precedente si leggano, in ordine:
“Il potere della comunicazione”
“Potere e comunicazione sociale”
“Se Mastodon avesse miliardi di utenti”
tutti pubblicati sul settimanale anarchico “Umanità Nova” nel 2019