Archivi categoria: Altro

Lo spettacolo della guerra

Una delle tante bugie che continuano a raccontare in molti è che dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale non ci sono stati più conflitti a livello globale ma solo guerre locali, in aree geografiche più o meno circoscritte e che hanno coinvolto pochi paesi. La bugia è tanto più grande perché ci vuole poco, per chi abbia voglia di approfondire l’argomento, per scoprire che una qualsiasi guerra non coinvolge esclusivamente i diretti contendenti. Un paese impegnato in un confronto armato necessita di una quantità di aiuti, di ogni genere, che non potrebbero mai provenire tutti e solo dalle sue risorse interne. Sostegni finanziari, militari, logistici, industriali, tecnologici, sanitari e quanto altro serve a portare avanti un qualsiasi conflitto arrivano quindi – in piccola o grande parte – da altri paesi. Solo degli ipocriti possono sostenere che questi paesi non partecipano a una guerra solo perché non hanno dei morti da piangere o delle città da ricostruire. E questo coinvolgimento non è mai disinteressato, direttamente tramite transazioni finanziarie o indirettamente tramite i vantaggi che possono derivare da un conflitto. La guerra è il più grande degli affari in assoluto, un affare che produce ricchezza per i ricchi e povertà per tutti gli altri. I conflitti a livello globale quindi non sono mai terminati, anche se oggi i teatri di battaglia sono geograficamente più circoscritti ma, alla fine, i risultati sono comunque distruttivi e mortali.

La bugia che continuano a raccontare ha però un difetto, può essere usata con sicuro successo principalmente nei paesi i cui territori non sono direttamente coinvolti in una guerra. Qualche problema può sorgere in quelli che, pur non avendo una minaccia territoriale, inviano truppe sui campi di battaglia dove, come è noto, qualcuno ci resta per sempre. In questo secondo caso a sostenere chi racconta bugie ci pensano gli addetti alla propaganda capaci di inventare fantasiosi giri di parole per definire la stessa identica cosa: persone che si ammazzano tra di loro. Questi giochi di parole contribuiscono a rendere meno cruda la realtà dei fatti per la popolazione, cosa che riesce almeno fino a quando a morire non è qualcun* che si conosce direttamente o indirettamente.

Ma, soprattutto nelle democrazie dei paesi più potenti, ci sono anche altri sistemi ben collaudati nel corso degli anni per distrarre le persone da una guerra, anche la più sanguinosa. Basta farla diventare una sorta di “incontro sportivo” assistendo al quale si può liberamente parteggiare per una delle due parti in campo. Come in una partita di un qualunque sport di squadra si formeranno (quasi) naturalmente due “tifoserie” opposte che prontamente prenderanno le parti per una delle due compagini. E, come accade nelle competizioni sportive, ci sarà spazio sia per un tifo a carattere familiare sia per gli eccessi degli “ultras”, per i commenti degli esperti seri in giacca e cravatta e per le invettive dei meno educati al civile dibattito.

In questi ultimi anni si può verificare il funzionamento di questo sistema in tempo reale, quotidianamente sui cosiddetti “social” dove si scontrano, 24 ore su 24, i sostenitori delle fazioni contrapposte in una qualsiasi guerra. Il sistema mediatico tradizionale e la Rete forniscono senza sosta una quantità di materiale informativo e disinformativo di qualsiasi genere in grado di alimentare le ragioni di tutti. Ovunque ci sia un conflitto e qualsiasi siano le sue cause, quello che cambia sono solo le dimensioni del pubblico coinvolto: grandi numeri per le guerre che hanno un grande risalto mediatico, piccoli numeri per quelle snobbate dal mainstream. Esattamente come se fossimo davanti a due partite, la prima che raccoglie una maggiore audience in quanto in campo ci sono due super-squadre nelle quali giocano campioni milionari e la seconda con uno share più basso perché sul terreno di gioco ci sono due squadre di dilettanti. Le democrazie fanno in modo che ci sia spazio, naturalmente direttamente proporzionale, per entrambi. Non si tratta di paragonare quello che accade su un campo di battaglia con quello che avviene su un campo di gioco ma, solo di far notare quanto – a debita distanza – anche una strage può essere trasformata in uno spettacolo interrotto dai “consigli per gli acquisti” e dove l’orrore è comunque a disposizione solo di chi lo desidera.

Spesso, soprattutto quando si tratta di conflitti ritenuti (a torto o a ragione) molto importanti, scattano inevitabilmente meccanismi di pressione sociale diretti a costringere tutte le persone a schierarsi sull’uno o l’altro fronte. Chiunque decida di non farlo viene automaticamente arruolato tra le file del nemico di turno: è importante scegliere un campo, non si può restare neutrali. Negli stadi non ci sono settori riservati al pubblico dei non tifosi.

Fino a non moltissimi anni fa esistevano in tutto il mondo movimenti contro la guerra, si trattava di gruppi compositi formati da persone che avevano anche idee molto diverse: dal pacifisti non violenti ai black-bloc anarchici, dai seguaci di molte religioni agli atei, da persone appartenenti a classi sociali diverse. Questi movimenti riuscivano a portare in piazza, in tutti i paesi, centinaia di migliaia di persone allo scopo di esercitare una pressione politica sui governi per costringerli a politiche di pace. Nessuno di quei movimenti è mai riuscito a fermare una guerra ma non è questa la sola ragione per la quale oggi le strade e le piazze sono praticamente deserte nonostante le ragioni per riempirle sono davanti agli occhi di tutti.

Questa situazione è legata, almeno in parte, proprio a quanto descritto prima. Oggi è molto più difficile assumere una posizione “altra” davanti a un conflitto armato, la forza della propaganda, della disinformazione e la pressione sociale spingono molte persone a schierarsi da una parte o dall’altra. Anche perché è molto più semplice e sicuramente meno faticoso trovare all’interno del diluvio informativo una o più ragioni per fare una scelta di campo. Non stiamo sostenendo che non ci siano anche altre ragioni che hanno portato alla sparizione dei movimenti pacifisti ma solo che quest’ultimo aspetto ha assunto oggi una certa importanza.

Per questo è diventato sempre più complicato e difficile per chi da sempre ha sostenuto l’antimilitarismo propagandare posizioni e portare avanti iniziative di lotta che vanno in una direzione diversa da quella di chi si limita ad assistere, più o meno passivamente, allo spettacolo della guerra. Complicato e difficile, ma necessario.

Un governo vecchio

Internet vive di immagini, per cui alle principali notizie viene sempre collegata una foto o un piccolo clip video, anche quando non ce ne sarebbe bisogno. Così, contestualmente all’elezione del Presidente del Senato è rimbalzata su tutto il web la sequenza iniziale del film “Sbatti il mostro in prima pagina” (regia di Marco Bellocchio, 1972). La pellicola si apre con delle immagini di repertorio dove si vede l’attuale seconda carica della Repubblica che arringa dal palco una piccola folla durante un comizio. È interessante, oltre alle immagini, ascoltare l’audio che ha registrato un piccolo brano del discorso, probabilmente quello finale:

“… italiani che non hanno rinunciato all’appellativo di uomini che si uniscano al di sopra delle fazioni, al di sopra dei partiti, al di sopra delle divisioni interessate e volute, al di sopra dell’ormai superato, in disuso e troppo a lungo sfruttato fascismo e antifascismo. Si uniscano per dire sì alla libertà nell’ordine… questa dimostrazione, questa manifestazione vuole dimostrare che è possibile battere il comunismo, che è possibile battere i nemici dell’Italia e insieme lo faremo. Viva l’Italia.”

Il filmato è stato girato a Milano, probabilmente nel 1972, nel corso di una manifestazione indetta da quella che allora si autodefiniva “maggioranza silenziosa”, un estemporaneo raggruppamento che metteva insieme forze provenienti da aree politiche diverse che coprivano uno spettro molto ampio: dagli iscritti al “Movimento Sociale Italiano” (MSI) a quelli del “Partito Socialista” (PSI), incluso ovviamente l’area della “Democrazia Cristiana” (DC) e degli altri partiti più piccoli. Un agglomerato del genere, che oggi verrebbe definito un movimento trasversale, aveva come suo principale collante un comune nemico il “comunismo” che in quegli anni era identificato nel “Partito Comunista Italiano” (PCI) ma anche nei tanti gruppi della cosiddetta “sinistra extraparlamentare”. L’anticomunismo rappresentava la paura degli strati privilegiati della società riguardo alla possibilità che in Italia ci potesse essere una rivoluzione comunista. Un primo tentativo di organizzare quella paura fu fatto nel 1970 da Edgardo Sogno, partigiano “bianco” e medaglia d’oro per il suo contributo alla resistenza, che aveva provato a fondare un movimento anticomunista, non caratterizzato esplicitamente da una ideologia fascista, che auspicava la trasformazione dell’Italia in una Repubblica presidenziale, ristabilendo i “valori di una democrazia occidentale e nazionale”.

L’anno successivo, il 1 di febbraio, fu invece costituita ufficialmente a Milano una associazione denominata proprio “maggioranza silenziosa”, nel corso di una riunione tenuta nella sede del “Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica” (PDIUM”).

Questa “maggioranza silenziosa” fece parlare di sé per poco meno di un paio di anni, soprattutto perché le sue iniziative pubbliche, che si tennero principalmente in alcune città del nord Italia, vennero quasi sempre contestate da gruppi della sinistra extraparlamentare.

Intanto l’espressione “maggioranza silenziosa” era entrata nel gergo giornalistico e fu usata molto frequentemente negli anni ’70 e solo sporadicamente in quelli successivi. Un fugace ritorno alla ribalta dei mezzi di comunicazione di massa di quella espressione avvenne in occasione della cosiddetta “marcia dei 40000”, la manifestazione tenuta a Torino il 14 ottobre del 1980 dai quadri della FIAT.

Tornando al giorno d’oggi e leggendo anche il discorso di insediamento fatto dal Presidente del Senato potrebbe sembrare che le elezioni del 25 settembre 2022 abbiano portato al governo una versione moderna di quella “maggioranza silenziosa” che scendeva in piazza 50 anni fa. Ma non è proprio così.

La Storia non si ripete esattamente allo stesso modo ma ci sono comunque molte somiglianze tra l’area sociale alla quale si rivolgeva il giovane capellone e barbuto del film di Marco Bellocchio e quella rappresentata oggi dai partiti al governo. Non c’è bisogno di dimostrare che “FdI” è un partito che ha raccolto l’eredità del “MSI” e che sia “FI” che “Lega” sono l’attuale incarnazione dei vecchi partiti di centro e di sinistra che hanno governato l’Italia per tutta la cosiddetta “prima repubblica”. Il superamento della discriminante antifascista, auspicata nel comizio del 1972, è ormai avvenuto da tempo e le componenti politiche di una sorta di “maggioranza silenziosa” sono nuovamente insieme al governo. Di nuovo perché l’attuale non è certo il primo governo formato da quel tipo di maggioranza. Dal 1994 al 2011 si sono succeduti in continuità, salvo un breve intervallo i governi: Berlusconi I (1994), Berlusconi II (2001-2005), Berlusconi III (2005-2006) e Berlusconi IV (2008-2011) che hanno visto riuniti insieme sempre gli stessi partiti. Volendo trovare una differenza quelli precedenti si potrebbero definire governi di “centro-destra” e l’attuale potrebbe essere definito di “destra-centro”, solo per sottolineare che gli equilibri di quella coalizione si sono spostati a favore di un partito erede del fascismo storico.

Ma nel recente passato molti dei provvedimenti legislativi che hanno peggiorato le condizioni di vita dei più poveri non sono stati sempre adottati da governi di “centro-destra” ma piuttosto da quelli che si definivano di “centro-sinistra”: la deregolamentazione dei contratti di lavoro è iniziata con il cosiddetto “pacchetto Treu” preparato durante il Governo Dini (1995-1996) e portato a compimento dal Governo Prodi I (1996-1998). La riduzione delle tutele dei lavoratori, previste dall’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, è stata ottenuta attraverso il cosiddetto “Jobs Act” approvato durante il Governo Renzi (2014-2016). Solo per citare i due esempi più eclatanti.

Il peggio di sé questo governo non lo potrà dare nella politica estera, visto che si dovrà allineare (volente o nolente) al carro della NATO e nemmeno in quello economico, dove a comandare sono le solite istituzioni sovranazionali alle quali, chiunque sia al governo, deve obbedire. Andrà probabilmente peggio sul campo interno, dove potranno essere prese delle decisioni che hanno globalmente uno scarso impatto economico ma che possono provocare grossi danni sociali.

Il logoro e lugubre terzetto “Dio, Patria e Famiglia” (tutto con la maiuscola) verrà declinato in tutte le sue varianti, e ci sarà sicuramente un aumento della demagogia che fa comunque parte di ogni compagine governativa. Ma anche questo inossidabile terzetto verrà rivisitato in senso moderno e sarà quasi irriconoscibile rispetto a quello tradizionale per cui verrà fatto di tutto per rendere più difficile la scelta di interrompere una gravidanza ma difficilmente verrà abrogata la Legge 194. E probabilmente nemmeno il più accanito nostalgico del fascismo proporrà di eliminare la legge sul Divorzio che, alle origini, era uno dei principali obiettivi della battaglia della destra, in quanto minava la famiglia e andava contro l’indissolubilità del sacramento religioso del matrimonio.

Demagogia che già si è vista in azione a partire dalle nuove denominazioni dei Ministeri, come se bastasse cambiarne il nome per modificare qualcosa. Demagogia nei primi provvedimenti annunciati il cui impatto sarà molto più mediatico che concreto. In alcuni casi le differenze tra l’esecutivo in carica e quelli precedenti non sarà apprezzabile, proprio in questi giorni si legge della decisione di mantenere l’ergastolo “ostativo” (la legge secondo la quale un ergastolano non pentito non può accedere ad alcun beneficio) introdotta dal precedente governo e questo nonostante sia stata già definita la sua incostituzionalità. In altre parole probabilmente verranno confermate e/o peggiorate tutte le scelte già fatte da governi “antifascisti”.

Questo non significa che non ci siano differenze tra avere al Governo degli (ex) fascisti piuttosto che degli (ex) democristiani o degli (ex) comunisti, ma che le differenze tra le politiche portate avanti dagli schieramenti politici in Parlamento sono davvero minime e comunque ci sono sempre più punti in comune che punti divergenti tra “centro, destra e sinistra”.

Nei prossimi mesi il gioco delle parti vedrà la cosiddetta “opposizione” lanciarsi in molto poco credibili campagne per i “diritti sociali”, saranno esattamente gli stessi che quando erano al Governo hanno colpevolmente ignorato per anni, lasciando nel dimenticatoio provvedimenti come lo “ius soli”, il diritto a un degno fine vita e la liberalizzazione del consumo e della coltivazione della cannabis, giusto per citare i primi tre esempi che vengono in mente.

Dalla parte sua l’esecutivo in carica ha oggi, oltre che una maggioranza parlamentare abbastanza solida, anche la fortuna di avere una donna come capo di governo, cosa impensabile nella “maggioranza silenziosa” degli anni ’70, il che ha provocato anche una sorta di piccolo corto circuito culturale. Oltre alla scontata constatazione che, nonostante tutte le belle parole spese negli ultimi 50 anni dai partiti e dai movimenti di sinistra, la prima donna Presidente del Consiglio è cresciuta nell’ambiente delle formazioni studentesche di estrema destra piuttosto che in qualche collettivo femminista.

Il paragone con la vecchia “maggioranza silenziosa” è servito solo per segnalare che l’ideologia che sta dietro al nuovo governo non è poi così nuova come vogliono farci credere, ignorando colpevolmente la storia recente che ha visto i politici di “FdI” al governo in più di una occasione, anche se sotto altro nome. Questo non vuol dire che l’antifascismo debba andare in pensione, in quanto la vittoria elettorale del 2022 sicuramente sarà di stimolo ai più nostalgici del 1922 per provare a sollevare la testa magari sperando in una benevolenza da parte dell’autorità costituita, benevolenza che non è certo mancata fino a ieri, visto che a Predappio manifestano da anni.

Una delle differenze più evidenti tra il 1972 e oggi è che allora era molto diffuso, in campo lavorativo, politico e sociale, un movimento di ribellione con il quale dovevano fare i conti tutti i partiti e i governi, che reclamava – con tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti – più diritti per tutti e un radicale cambiamento sociale. Un movimento che oggi non c’è, nemmeno mettendo insieme tutte le varie e diverse esperienze di lotta che esistono. Un movimento che non può essere fatto rinascere basandosi esclusivamente sulla risposta emozionale agli allarmi antifascisti.