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articoli pubblicati da qualche parte su carta

Genova 20 anni e dopo (5)

Con questi ultimi cinque termina la ripubblicazione di alcuni degli articoli usciti sul settimanale anarchico “Umanità Nova” a proposito di quello che è successo dopo le tre giornate del luglio del 2001 a Genova. L’ultimo articolo scelto è volutamente quello uscito nel 2011, nel decennale, con una sorta di riassunto-bilancio.

Gli articoli precedenti si trovano qui:
Genova 20 anni e dopo (1)
Genova 20 anni e dopo (2)
Genova 20 anni e dopo (3)
Genova 20 anni e dopo (4)


Umanità Nova n.2 del 20 gennaio 2008

Quanto è lontana Genova?

“Oggi sarà il giorno del morto.” (Renato Farina, alias agente “betulla” giornalista e informatore dei servizi segreti, “libero”, 20/07/2001)

La recente sentenza [1] di primo grado contro 25 compagni e compagne, processati per i fatti del luglio 2001 a Genova, è lo spunto dal quale partiamo per ricordare qualche fatto e proporre qualche brevissima riflessione.

Nonostante non sia ancora disponibile il dispositivo completo è evidente che la sentenza ha operato una distinzione tra gli imputati, a seconda se siano stati condannati o meno per “devastazione e saccheggio”. Per cui il medesimo atto (per esempio lanciare una molotov) può essere punito con pene molto diverse, una differenza che si misura in anni di reclusione.

Mai come in questo caso si può dire che si è trattato di una sentenza annunciata, in quanto il giudizio ha sancito una interpretazione di quanto avvenuto in quelle giornate già scritta nel 2001 e ribadita poi durante tutti questi anni.

La prova generale

Napoli, 17 marzo 2001, un corteo di almeno 30 mila persone arriva in Piazza Municipio per protestare contro la riunione del “Global Forum”. Appena un gruppo prova a forzare il blocco della polizia scatta la trappola: i manifestanti vengono accerchiati, tutte le vie di fuga sono chiuse, e picchiati indiscriminatamente. I fermati vengono portati in una caserma della PS dove subiscono un ulteriore trattamento a base di botte ed umiliazioni [2]. Col senno di poi questo episodio è stato considerato una sorta di “prova generale”, gestita dal governo di “centro-sinistra”, di quello che poi sarebbe avvenuto a Genova, quando al governo ci sarà invece il “centro-destra”, appena insediato.

Con l’avvicinarsi dell’appuntamento del G8, iniziano a comparire su tutti i media notizie allarmate ed allarmistiche su quello che sarebbe potuto accadere in quei giorni: dai preservativi pieni di sangue infettato dall’AIDS, allo sgombero delle celle dei carceri per far posto agli arresti, all’obitorio di “almeno 500 metri quadri” per ogni evenienza [3]. Il centro della città ligure viene rinchiuso da una serie di inferriate, cancelli e barriere varie, come se si preparasse ad un vero e proprio assedio.

Un passo indietro

Alle iniziative di Genova, si era arrivati sull’onda lunga della rivolta di Seattle (novembre 1999) che aveva ridato fiato ad un movimento internazionale di protesta già in lotta da tempo contro il capitalismo globale. Un movimento battezzato frettolosamente dai media come “no-global” (all’inizio “popolo di Seattle”), mentre in realtà la partecipazione di migliaia di persone alle iniziative in diverse parti del mondo, stava mettendo in pratica una vera e propria globalizzazione della protesta. A Seattle, a Praga (settembre 2000), Quebec City e Goteborg (aprile 2001), il movimento era riuscito a mettere insieme diverse “anime”, quelle che da sempre alimentano i movimenti per il cambiamento sociale, e così accanto ai riformisti e non violenti, si erano trovati anche quelli che non rinunciano a priori ad uno scontro con le forze poste a difesa del profitto e dello sfruttamento.

Ed erano stati proprio questi ultimi a caratterizzare le diverse proteste, solo un ipocrita non avrebbe l’onestà necessaria per dire che sono state proprio queste pratiche ad imporre l’attenzione dei media per le tematiche portate avanti dal movimento, mettendo contemporaneamente in secondo piano le inutili chiacchiere che si facevano nei diversi summit.

La rivolta

A Genova si è ripetuto (in grande scala) quanto già avvenuto in precedenza, quando le proteste contro i padroni della Terra erano sfociate in scontri violenti con le forze della repressione. A quasi sette anni di distanza, nessuno ricorda più di cosa hanno discusso i G8, ma tutti ricordano invece la rivolta di piazza.

Con premesse del genere, la possibilità di “incidenti” era sicuramente messa nel conto da tutti coloro che andarono a Genova coscientemente e non semplicemente a rimorchio di qualche gruppo di anime candide. Quello che invece non era possibile prevedere era la tattica che avrebbero utilizzato le forze dell’ordine e il numero dei partecipanti alla protesta. E sono stati questi due fattori che hanno contribuito far saltare molti piani.

La mobilitazione fu imponente, fin dall’inizio si capì che in piazza ci sarebbero state decine di migliaia di persone. Tutte intenzionate, anche se in modo diverso, a violare la “zona rossa”: i non-violenti si organizzarono per manifestare pacificamente il loro dissenso, i “concertativi” per rappresentare la loro radicalità tutta mediatica e gli “incontrollabili” per attaccare i simboli del capitale e dello stato. Da parte sua lo Stato mobilitò quasi 20 mila addetti all’ordine pubblico.

Al termine delle quattro giornate di Genova si contavano almeno 560 feriti e 301 tra arrestati o fermati, un bilancio appesantito tragicamente dalla morte di Carlo Giuliani. Ancora un volta nel crogiolo del movimento avevano trovato ospitalità, una accanto all’altra, pratiche di lotta molto diverse.

Infiltrati!

La lettura che venne data di quegli avvenimenti, quasi immediatamente ed ossessivamente nei mesi successivi, accentuò la divaricazione preesistente tra le diverse “anime” del movimento. Il ceto politico ripeteva che tutte le violenze avevano due colpevoli: le forze dell’ordine che avevano attaccato i manifestanti pacifici ed i “black-bloc” che avevano operato la devastazione della città. I secondi avrebbero avuto dai primi mano libera per agire indisturbati ed inoltre vi erano stati anche degli elementi delle forze dell’ordine infiltrati tra le file dei manifestanti più violenti.

Quello degli infiltrati è stato un ritornello che ha caratterizzato buona parte dell’informazione “alternativa”, una accusa che però non è mai andata oltre la banalità (i provocatori ci sono sempre stati) o il sospetto non provato [4]. Anche dopo mesi, nel libro bianco del “Genova Social Forum”, vennero riproposte le medesime accuse documentate da “prove” decisamente risibili [5].

Fin da subito fuori dal coro, il comunicato della Commissione di Corrispondenza della Federazione Anarchica Italiana:

“Rifiutiamo la campagna di criminalizzazione del Black Bloc, campagna che vede concordi i media dal Manifesto al Giornale. Pur critici nei confronti di una strategia di lotta che, riducendosi a mero confronto di piazza con la polizia, smarrisce la necessaria tensione alla comunicazione diretta più ampia, consideriamo inaccettabili le falsità fatte circolare in questi giorni. Certamente, come comprovato da più parti, provocatori e poliziotti hanno avuto mano libera a Genova, rendendosi responsabili di attacchi e distruzioni indiscriminate. Ma le loro responsabilità non possono essere attribuite al Black Bloc, che, per sua stessa dichiarazione, si è limitato a colpire banche e altri simboli del potere. La nostra più profonda alterità rispetto alla loro strategia non può esimerci dal rispetto per la verità. Una verità che in questi giorni è stata più volte calpestata nel tentativo di fabbricare un perfetto capro espiatorio della violenza poliziesca, questa sì feroce ed immorale. La distruzione di cose non può essere comparata alla violenza di chi bombarda popolazioni inermi, di chi decreta la morte per fame, per malattia, per tortura. Di chi stronca la vita di un giovane manifestante a colpi di pistola.” [6]

La Politica

Nell’agosto 2001 viene avviata una “indagine conoscitiva” parlamentare sui fatti di Genova, la commissione composta da parlamentari di tutti i partiti, procede all’ascolto di alcuni dei protagonisti dei fatti. Al termine vengono stilate ben tre relazioni. La prima, quella della maggioranza di governo, si conclude con un richiamo ai valori della democrazia ed una stigmatizzazione della violenza. La seconda, quella del PRC, con varie richieste, tra le quali quella di una Commissione di inchiesta. La terza, quella dell’Ulivo, è praticamente identica alla prima.

Viene comunque riproposta la tesi che vede in azione a Genova due entità del tutto distinte: da una parte il movimento, vittima di una cattiva gestione dell’ordine pubblico, e dall’altra i violenti. A questa tesi non si è mai riusciti a rispondere in modo efficace, non tanto per rivendicare la propria distanza dal dissenso autorizzato dalle istituzioni o dagli scontri programmati, ma nemmeno per chiarire che le azioni violente, condivisibili o meno, erano sicuramente altro che delle mere provocazioni poliziesche. E che erano davvero poca cosa, visto l’operato delle forze dell’ordine: i pestaggi in piazza, il massacro alla Scuola Diaz, le torture a Bolzaneto, l’omicidio di Giuliani.

Dopo il luglio 2001, una parte del movimento scesa in piazza a Genova ha proseguito nel suo percorso para-istituzionale sempre più marcato che portò – dopo un anno – alla grande manifestazione “riparatrice” di Firenze, quando in centinaia di migliaia sfilarono perfettamente (o quasi) inquadrati sotto l’ala protettrice dei partiti riformisti e del sindacato. Una dimostrazione di forza, soprattutto rivolta contro il Governo di centro-destra in carica, ma anche il canto del cigno per un movimento che da quel momento “dimenticherà” Genova.

La repressione continua

Nel frattempo erano partite diverse inchieste collegate ai fatti del luglio 2001 (processo ai 25, Bolzaneto, Scuola Diaz, Sud Ribelle), che sono state sempre sottovalutate e che non hanno mai trovato molto spazio nell’agenda degli ultimi anni. L’abbandono al loro destino, salvo poche eccezioni [7], dei compagni vittime della repressione e il continuare pervicacemente a sostenere la tesi dei manifestanti “buoni” e “cattivi”, ha portato come logica conseguenza alla sentenza del dicembre 2007.

Sebbene l’onda emotiva, causata soprattutto dalla morte di Carlo Giuliani, fu sicuramente forte e tali furono le mobilitazioni nei mesi successivi, questa forza si andò esaurendo rapidamente. Il tardivo guizzo vitale della manifestazione del 17 novembre 2007 a Genova, sicuramente riuscita dal punto di vista della partecipazione, è stata annullata un mese dopo dalla scarsa risposta collettiva data alla lettura della sentenza. Mentre qualcuno si dilettava, ancora, nella proposta di una inutile commissione di inchiesta, la magistratura – proprio a partire dal processo ai 25 – ha sempre più spesso utilizzato la comoda imputazione di “devastazione e saccheggio”. Come è stato, per esempio fatto nei confronti degli antifascisti di Milano e Torino, e anche questo avrebbe richiesto una mobilitazione che non è stata mai abbastanza forte.

Un errore che sicuramente pagheremo collettivamente.

Pepsy

Note

[1] Il testo della sentenza si può leggere qui http://toscana.indymedia.org/attachments/dec2007/sentenza25_07_12_14.pdf
[2] Per una parziale documentazione dei fatti vedi “Le 4 giornate di Napoli”, a cura dell’Infoshop “Senza pazienza”, Velleità Alternative, Torino 2001.
[3] Si veda la voce “Informazione” pubblicata nel volume “OGM. Organismi Genovamente Modificati”, Edizioni Zero in Condotta, Milano 2002. Una versione più ampia dell’articolo si trova su “rAn” n.16 del 2001.
[4] Si riascoltino le cronache giornalistiche di “Popolare network”, disponibili in parte su “Genova / Luglio 2001. Cronache”, Radio Popolare 2001. Ma si leggano anche i quotidiani della “sinistra”, tra i più ossessionati dai “black bloc” e dagli infiltrati.
[5] Per una critica di questa pubblicazione, vedi “Letture “genovesi”. il “Libro Bianco” del GSF” (“Umanità Nova” n. 26 del 21 luglio 2002), disponibile qui http://isole.ecn.org/uenne/archivio/archivio2002/un26/art2285.html
[6] Il Comunicato pubblicato su “Umanità Nova” n.28 del 5 agosto 2001, si può leggere qui http://isole.ecn.org/uenne/archivio/archivio2001/un28/art1760.html
[7] Pensiamo, per esempio, al lavoro del gruppo di “supporto legale” e di “indymedia”. Vedi http://www.supportolegale.org


Umanità Nova n.9 del 9 marzo 2008

Processo Bolzaneto. Un bel cesto di mele marce

Dopo più di 150 udienze, durante le quali sono sono stati ascoltate più di 300 testimoni, si sta avviando verso la conclusione il processo per i fatti di Bolzaneto. La storia è nota, ma vale sempre la pena di rinfrescarsi la memoria.

In occasione delle proteste contro la riunione dei G8 del luglio 2001 a Genova, vennero prese una serie di misure per fare fronte ai prevedibili disordini che sarebbero avvenuti. Tra le altre cose fu deciso di fare spazio nelle carceri vicine (Vercelli, Alessandria, Pavia, Voghera), in quanto si riteneva troppo rischioso usare il carcere cittadino. Vennero inoltre approntate due strutture per raccogliere i fermati, il Forte San Giuliano e la Caserma di Bolzaneto; nella prima dovevano arrivare i manifestanti catturati dai carabinieri, nella seconda quelli presi dalla polizia e dalla guardia di finanza. Dopo la morte di Carlo Giuliani però, i carabinieri furono spostati in seconda linea e quindi la prima struttura fu chiusa. Possiamo quindi dire che solo per un tragico caso di “Bolzaneto” ce ne sia stata una sola. Nei tre giorni delle manifestazioni, passarono per quella caserma 51-55 persone per l’identificazione e 252 per l’arresto, i numeri non sono precisi in quanto si è scoperto che i difensori dell’ordine e della legalità non tenevano l’elenco delle persone “accompagnate” in quella struttura dove transitarono, tra i tanti, anche quelli catturati nel corso della mattanza alla Scuola Diaz.

Il processo, che si è aperto nel 2005, vede 45 imputati, tra agenti di polizia, di polizia penitenziaria, sanitari ed ufficiali dei carabinieri, accusati di vari reati (sono 109 i capi di accusa) commessi contro le persone richiuse a Bolzaneto. Il tribunale, dopo aver sentito le testimonianze delle vittime di violenze e di abusi, ha iniziato a chiamare anche gli imputati ed i responsabili della struttura, le cui testimonianze sono state, come sempre avviene in questi casi, uno splendido esempio di omertà. Quelli che c’erano non ricordano di aver visto nulla di strano… si, magari avevano visto che nelle celle i fermati erano tenuti in piedi e con il viso rivolto al muro, magari avevano sentito dire che qualcuno aveva usato del gas urticante da qualche parte, ma (ovviamente) non se ne sono preoccupati troppo. Il che significa che, per loro, un trattamento del genere non è altro che una normale routine.

Di insulti, violenze fisiche e psicologiche, nemmeno a parlarne. Affermazioni decisamente poco credibili, se si pensa che persino gli esponenti più in vista del partito al governo nel 2001 furono costretti a dichiarare che “alla caserma di Bolzaneto, invece, sono accaduti episodi censurabili” (F. Cicchitto su “La Stampa”, 10/9/2001). E, in questi giorni, un quotidiano titolava addirittura “Bolzaneto come Guantanamo” (“La Stampa”, 26/2/2008), l’articolo con il resoconto della requisitoria del PM al processo in corso.

La ricostruzione dell’accusa non ha potuto fare altro che ripercorrere la lunga sequenza degli orrori raccontata da coloro che ebbero la sventura di finire a Bolzaneto e che, al contrario dei loro carcerieri, ricordano fin troppo bene, spesso sulla loro pelle, il trattamento che hanno subito e anche chi glielo ha inferto. Al contrario di quanto avvenne durante l’assalto alla Scuola Diaz, in questo caso non si trattava di picchiare selvaggiamente persone che stavano dormendo, ma persone che hanno avuto la possibilità di guardare in viso i propri aguzzini. E le vittime sono quasi tutte venute a testimoniare o sono state sentite per rogatoria internazionale, in quanto tra loro ci sono molti stranieri, persino un neozelandese. Hanno raccontato del “trattamento di benvenuto” ricevuto nel piazzale a suon di sputi, calci ed insulti, della marcatura sulle braccia fatta con un pennarello, della privazione di cibo ed acqua, delle percosse durante le operazioni di identificazione o le visite mediche, delle interminabili ore passate sempre in piedi e con la faccia al muro o in posizioni anche peggiori. Una serie di vere e proprie torture, un reato che la democrazia italiana non riconosce come tale, certamente nulla in confronto a Guantanamo, ma già troppo anche senza scendere in altri particolari.

Il processo adesso andrà avanti con le arringhe della difesa e la sentenza di primo grado è prevista, salvo intoppi, verso la fine del prossimo mese di aprile.

Pepsy


Umanità Nova n.11 del 23 marzo 2008

Chiesta la condanna per i torturatori di Bolzaneto

Come facilmente prevedibile sono arrivate le richieste di condanna per gli imputati delle violenze avvenute nella caserma di Bolzaneto nel luglio del 2001 (1), per i 45 processati sono stati chiesti un totale di 76 anni e spiccioli di carcere ed una sola assoluzione.
Dopo quasi sette anni i giornali di stato si sono improvvisamente accorti che questo è stato un “processo del quale si è parlato poco” (2) e che in quei tre giorni da incubo sono stati sistematicamente violati alcuni fondamentali diritti della persona. Nonostante questo, un avvocato difensore ha avuto il coraggio di protestare per le richieste dei PM facendo ricorso alle stesse motivazioni usate nei processi ai criminali nazisti: “sono state negate le attenuanti a chi faceva il suo dovere” (3), evidentemente secondo il legale il “dovere” degli addetti al lager di Bolzaneto era quello di usare violenza contro persone impossibilitate a difendersi.
Scontate anche le posizioni espresse dai sindacati di polizia. Il segretario del SAP ha dichiarato che il problema risiede nella “formazione più accurata delle forze di polizia” che vengono reclutate tra i disoccupati piuttosto che tra gli intellettuali e questo a causa del fatto che verrebbero pagate “meno di un bidello” (4). Dichiarazione non esattamente lusinghiera per i suoi rappresentati, che non sarebbero in grado di comportarsi in modo civile con un prigioniero senza aver preventivamente ricevuto una formazione “più accurata” (sic!) o uno stipendio più alto.
Di vecchio stile anche la posizione espressa in un comunicato del SAPPE-OSAPP (5), nel quale si legge: “La responsabilità di quanto avvenne nella caserma di Bolzaneto non è della polizia penitenziaria ma di coloro che hanno dato gli ordini, dei vertici che non hanno saputo prevedere e prevenire i gravi fatti di Genova” e, ribadito più avanti, “Le responsabilità sono di chi ha dato gli ordini, non degli esecutori”. Una classica chiamata di correo che non tiene conto del fatto che la responsabilità dei propri atti è sempre qualcosa di individuale, e che oltretutto le condanne più pesanti sono state chieste proprio per i funzionari più alti in grado, responsabili di Bolzaneto piuttosto che per i semplici agenti.
In pratica, non potendo smentire la realtà dei fatti, inventandosi un inciampo o una traiettoria deviata (come accade quando le pistole sparano da sole) i responsabili delle violenze provano a difendersi scaricando le colpe sui vertici o sul cattivo funzionamento del sistema nel suo complesso.
Paradossalmente, ma solo paradossalmente, potremmo anche concordare con loro, in quanto anche noi siamo fermamente convinti che le maggiori responsabilità vadano individuate molto più in alto. “Processiamo” lo Stato.

Pepsy

Riferimenti
(1) Vedi U.N. n.9 del 2008.
(2) “Inumani a Bolzaneto. Il PM chiede 76 anni”, Corriere della Sera, 12/2/2008.
(3) “I tre giorni dell’orrore nella caserma sulla collina”, Corriere della Sera, 12/2/2008.
(4) http://www.sap-nazionale.org/ultimaora.php?id=737&PHPSESSID=c1e0e09d01bebe5ba6923550c488c0a9
(5) http://www.sappe.it/notizia_count.asp?id=1653&categoria=19


Umanità Nova n.26 del 27 luglio 2008

Il sasso e il manganello

Esattamente a sette anni dai fatti, la scorsa settimana è arrivata  la sentenza di primo grado per le torture di Bolzaneto e dopo qualche  giorno le richieste del PM per il massacro alla scuola Diaz.
Il processo per i fatti di Bolzaneto si era aperto nel 2005 ed ha  visto sul banco degli imputati agenti e dirigenti della polizia di  stato e penitenziaria, carabinieri e personale sanitario accusati
di abuso d’ufficio, violenza privata, falso ideologico e abuso di  autorità. Durante le oltre 150 udienze ci sono state da una parte  le solite testimonianze degli agenti e dei loro superiori che non  ricordavano, non avevano visto o che non c’erano proprio e dall’altra  quelle delle vittime che descrivevano le vergognose violenze subite  in un clima apertamente fascista e razzista.

Dopo tre anni di processo sono arrivate le richieste di condanne complessive a poco più di 76 anni ed una assoluzione: da un minimo di 6 mesi ad un massimo di 5 anni, 8 mesi e 5 giorni, condanna chiesta per l’ispettore della polizia penitenziaria responsabile della sicurezza a Bolzaneto. Lunedì 14 luglio, dopo 10 ore di camera di consiglio, i giudici hanno emesso la sentenza condannando 15 imputati e assolvendone 30, diminuendo per tutti le pene chieste dai Pubblici Ministeri, alcuni dei condannati sono anche stati interdetti (temporaneamente) dai pubblici uffici. Questa prima sentenza sarà anche l’ultima in quanto, oltre all’indulto, a gennaio 2009 tutti i reati cadranno in prescrizione. Unica consolazione (se si può usare questo termine)
è il fatto che è stato riconosciuto un risarcimento preliminare ad alcune delle vittime che dovrebbe essere pagato, a meno di altri intralci, dal Ministero dell’Interno e da quello della Giustizia, condannati anche al pagamento delle spese processuali.

Le valutazioni date su questa sentenza si sono, ovviamente, sprecate. Da destra è stato affermato che la decisione dei giudici ha smontato un teorema, come se la tortura anche di una sola persona (e non è questo il caso) fosse meno grave di quella di centinaia. In pratica è stata riproposta la vecchia e scontata favoletta delle “mele marce” o dei “casi isolati”, espressioni normalmente utilizzate dai fanatici del manganello quando, non potendo negare una eclatante evidenza, cercano ignobilmente di minimizzarla. Da parte della “sinistra” ci sono state invece i soliti lamenti sul fatto che nel Codice Penale non sia previsto il reato di tortura o la trita riproposizione della necessità di una (inutile) Commissione di inchiesta parlamentare.
Qualcuno è arrivato persino ad analizzare il significato del termine “tortura”, giungendo alla conclusione che non era comunque possibile applicarlo a quanto subito da coloro che sono transitati per Bolzaneto.

Giovedì 16 luglio è stata la volta del processo per l’assalto alla scuola Diaz. In questo caso gli imputati erano soprattutto funzionari della polizia, accusati di falso ideologico, calunnia e arresto illegale. Il Pubblico Ministero ha chiesto di condannarne 28 e di assolverne 1 con pene che variano da pochi mesi a 5 anni, per un totale di 109 anni di carcere. Chiesta anche l’interdizione temporanea dai pubblici uffici e contestualmente le attenuanti generiche in quanto, secondo l’accusa, gli accusati hanno agito in quel modo perché erano convinti di svolgere il proprio dovere. Tra gli altri è stata chiesta la condanna anche per due funzionari che nel frattempo hanno fatto una bella carriera: oggi uno dirige l’Anticrimine e l’altro è un capo dei Servizi Segreti. La pena più alta è stata chiesta per il vicequestore che portò nella scuola le famigerate molotov, che poi qualcuno finse di trovare in quei locali e qualcun altro fece sparire durante il processo.

Anche in questo caso, come per il processo su Bolzaneto, sono sfilati una serie di smemorati e lo stesso PM ha dovuto ammettere la difficoltà incontrata a portare avanti un processo contro dei poliziotti. Per dirne solo qualcuna, nessuno degli accusati ha avuto il coraggio di riconoscere come propria una delle tante firme apposte ai verbali stilati in quella occasione e non si conosceranno mai tutti i nomi degli agenti che hanno proceduto all’irruzione, che hanno spedito all’ospedale decine di persone, che hanno distrutto un edificio, che hanno raccolto le “prove”, orgogliosamente mostrate il giorno dopo su un tavolo a tutti i media per tentare di giustificare l’ingiustificabile.

Quella della Diaz fu definita nel 2001 operazione in “stile cileno” e, più recentemente, “macelleria messicana” (i razzisti si fanno scoprire subito…) mentre, in realtà si trattò di una tipica sceneggiata italiana. Tutto sarebbe partito da una sassaiola invisibile, proseguito con il ferimento di un giubbotto causato da un fantasma, e con la partecipazione straordinaria di due molotov che appaiono e scompaiono a seconda dei bisogni. Nel mezzo il massacro di un centinaio di persone che dormivano pacificamente e che poi, in parte, furono costrette anche a subire gli oltraggi di Bolzaneto.

Ancora una volta, i media hanno riportato le dichiarazioni dei fascisti e dei loro sostenitori che si affannano a precisare che si tratta di un teorema, che queste sono ricostruzioni di parte, che la responsabilità è individuale e che (al massimo) si tratta dei soliti casi isolati, tanto isolati da essere la fotocopia di quelli accaduti a Bolzaneto e, per tre giorni, nelle strade e nelle piazze di Genova. La sentenza per il processo Diaz è attesa entro la fine di questo anno ma già è noto che – anche in questo caso – indulto e prescrizione cancelleranno tutto.

Lasciando da parte queste miserie, resta il fatto che le vicende alla base dei processi di Bolzaneto e della Diaz sono indissolubilmente collegate al comportamento tenuto dalle forze della repressione durante le proteste contro il G8 avvenute nel luglio 2001 a Genova. E non solo perché molti tra i fermati durante gli scontri di piazza e dopo l’irruzione nella scuola Diaz finirono proprio a Bolzaneto, ma anche perché in quei luoghi proseguirono le violenze contro chiunque capitasse tra le mani dei servitori dello stato. In altre parole, in quei giorni a Genova le persone furono picchiate dovunque e comunque: durante gli scontri di piazza, dopo l’arresto e persino mentre dormivano.

E nonostante questo oggi c’è ancora chi ha il coraggio di sostenere che questi comportamenti si possono definire come una devianza che va attribuita ai singoli individui piuttosto che alle forze dell’ordine nel loro complesso. Giocando sul fatto, indiscutibile, che la responsabilità è personale ma sorvolando intenzionalmente sul fatto – altrettanto indiscutibile – che in quel contesto i comportamenti violenti contro i manifestanti sono stata la regola piuttosto che l’eccezione.

Ricordare quello che è stato Genova è comunque un esercizio necessario alla memoria collettiva ma che, in assenza di un movimento che assuma quegli avvenimenti come parte della propria storia, potrebbe lasciare il tempo che trova. Contemporaneamente andrebbero ricordati tutti coloro che al tempo minimizzarono le dichiarazioni fatte dalle vittime della violenza statale: ministri e parlamentari vari tutti intenti  a mettere sullo stesso piano le violenze contro persone che non potevano  difendersi, culminate con l’omicidio di Carlo Giuliani, con le vetrine  rotte o le auto in fiamme. La giustizia ha dimostrato, con le sue  sentenze, che le due cose non stanno sullo stesso piano e che, contrariamente  a quanto affermato dal PM del processo Diaz, viene considerato maggiormente  colpevole chi ha lanciato un sasso di chi ha picchiato una persona  indifesa.

Ma la giustizia dei tribunali ci interessa solo fino ad un certo  punto e quanto accaduto a Genova non aveva bisogno di una conferma  diversa dalle testimonianze dirette delle centinaia di persone offese  e violentate durante quei giorni. Nessuna sentenza poteva dargli torto e nessuna sentenza potrà dargli ragione.

Pepsy


Umanità Nova n.19 del 30 maggio 2010

Sentenza Diaz: lo stato rivendica il massacro

Martedì 18 maggio è stata letta la sentenza di secondo grado del processo contro i poliziotti che a Genova assaltarono, nella notte tra il 21 ed il 22 luglio 2001, la Scuola Diaz. L’episodio, insieme all’assassinio di Carlo Giuliani e alle torture inflitte ai manifestanti arrestati e portati nella caserma di Bolzaneto, è uno di quelli che rendono quel luglio del 2001 davvero difficile da dimenticare.

Due anni fa, il processo di primo grado aveva visto la condanna di 13 tra funzionari e agenti imputati e l’assoluzione o la prescrizione per gli altri. Questa volta la sentenza ha accolto quasi completamente le richieste dell’accusa e il numero dei condannati è salito a 25 (su 28 imputati), e sono condanne che – anche se in parte destinate ad essere solo simboliche – potrebbero pesare nel caso venissero confermate anche nel giudizio di terzo grado. Intanto chi ha avuto la condanna più alta (5 anni) è andato in pensione e gli agenti semplici condannati sembra si lamentino di non aver fatto molta carriera, al contrario dei loro superiori.

Una volta tanto non è stato possibile far passare il massacro di decine di persone come un “effetto collaterale” di uno scontro di piazza e neppure nascondere il fatto che la polizia aveva costruito prove false per giustificare la sanguinosa operazione repressiva: due molotov portate sul luogo dagli stessi agenti e un ferimento inventato. A questo punto anche una sentenza completamente diversa in Cassazione non potrà entrare nel merito di come si sono svolti i fatti, ma solo valutare la legittimità delle condanne inflitte.

Abbastanza importante dal punto di vista politico è che tra i colpevoli ci sono funzionari che attualmente ricoprono importanti cariche (in polizia e nei servizi segreti) alle quali sono stati promossi nel corso di questi anni, e che sono stati condannati per reati che prevedono anche l’interdizione dai pubblici uffici.

Alcuni media hanno (erroneamente) titolato su un presunto “ribaltamento” della sentenza di primo grado, mentre in realtà chiunque poteva semplicemente ricordare che quanto accaduto quella notte era ben chiaro fin dall’inizio, anche senza la necessità di un processo lungo quasi dieci anni: un nutrito gruppo di poliziotti aveva fatto irruzione di notte in un edificio dove stavano dormendo pacificamente delle persone inermi che erano state prima riempite di botte, poi arrestate e infine accusate con false prove. Tutta la faccenda della cosiddetta “catena di comando”, della necessità di scoprire chi, perché e come avesse ordinato la mattanza e su chi vi aveva preso parte sono, in un certo senso, solo dettagli ai quali si possono interessare i fascisti che difendono sempre i comportamenti delle forze dell’ordine, i democratici che chiedono improbabili Commissioni di inchiesta e tutto coloro che credono ancora alla favoletta delle mele marce.

Non stupisce che, davanti ad una sentenza del genere, esponenti in vista dell’attuale Governo abbiano chiaramente fatto sapere a tutti che i poliziotti condannati, anche dalla giustizia oltre che dalla verità della storia, hanno comunque la loro piena fiducia, perché gli imputati sono sempre innocenti fino a condanna definitiva e c’è ancora la Corte di Cassazione che potrebbe cambiare il verdetto finale. Dichiarazioni del genere sono una evidente, ennesima, rivendicazione dell’operato delle forze della repressione, anche quando hanno un comportamento chiaramente contrario alle leggi che pretendono di difendere. Lo Stato si è assunto di nuovo, tramite i suoi ministri, la completa responsabilità di quanto accaduto quella notte nella Scuola Diaz e lo ha fatto non certo per salvare la poltrona o la carriera di qualche decina di suoi fedeli servitori, ma per ribadire in modo chiaro e forte che ha il monopolio della violenza e che intende esercitarlo garantendo, come sempre, l’impunità ai propri fedeli servitori anche quando vengano condannati per essersi macchiati di delitti particolarmente odiosi.

E questo, visti i tempi che corrono, suona quasi come un avvertimento.

Pepsy


Umanità Nova n.24 del 24 luglio 2011

A dieci anni dal 2001. Che cosa resta di Genova

A volte l’afa gioca brutti scherzi e in questi giorni potrebbe capitare che un ispettore giudicato colpevole del reato di “falso in atto pubblico” continui a prestare servizio presso la stessa Procura che l’ha processato, che un funzionario di polizia condannato, anche in appello, per “falso” e “induzione a falsa testimonianza” sia promosso questore e che un medico, anche questo condannato, in primo e secondo grado, per il suo coinvolgimento nel maltrattamento di decine di persone arrestate riceva un bel premio per la sua “efficienza” lavorativa. Si, deve essere sicuramente un effetto collaterale del caldo di questa settimana.
Anche quel luglio del 2001 era caldo, le innumerevoli immagini lo ricordano a chi quei giorni non era a Genova, per ragioni anagrafiche, per puro caso o per scelta cosciente. Ma chi – dieci anni fa – si trovava nella città ligure difficilmente avrà bisogno di guardare una foto o un filmato per richiamare alla memoria avvenimenti già abbastanza lontani da diventare storia e contemporaneamente ancora vicini da far lacrimare di nuovo. Al di la della retorica, delle interessate sponsorizzazioni politiche e di quell’inevitabile pizzico di reducismo che accompagna qualsiasi anniversario, ci si potrebbe semplicemente chiedere cosa resta oggi di quei giorni.
Restano i processi, grandi e piccoli ancora in piedi, ma che già hanno sancito verità impossibili da nascondere: la violenza sulle persone, quando esercitata dalle forze di repressione dello Stato, resta impunita; la violenza sulle cose inanimate, sulla proprietà, continua a essere un reato grave da sanzionare pesantemente per ricordare a chi lo abbia dimenticato in che mondo viviamo. Da una parte agenti e funzionari condannati e promossi e dall’altra manifestanti condannati e basta.
Restano le ragioni di fondo di chi aveva provato a opporsi all’ennesima sfilata dei potenti della Terra, come già era avvenuto a Seattle nel 1999, a Praga nel 2000, a Göteborg e a Napoli solo pochi mesi prima e poi dopo anche in altre città. Ancora per qualche anno, ma con iniziative sempre un po’ meno partecipate e sempre po’ più istituzionalizzate, a segnare il riflusso che solitamente colpisce tutti i movimenti, proprio mentre – dall’altra parte – avanzava la crisi economica e sociale di un sistema che sembra ogni giorno sull’orlo del fallimento ma che continua a dominare, a uccidere, a sfruttare.
Restano le differenze tra le diverse “anime” di quel movimento, quelle che i giornalisti dei media ufficiali sono soliti ridurre alla questione dell’uso della violenza, mentre in realtà sono diversità esistenti da sempre tra chi si accontenta anche di un capitalismo maggiormente compassionevole e chi invece lotta per un cambiamento reale dello stato di cose presente. Tra chi crede ancora che esistano forze politiche “amiche” e chi invece si muove da sempre in direzione dell’auto-organizzazione, tra chi chiede ancora le “scuse” delle istituzioni e tra chi non saprebbe proprio che farsene.
Resta il sostanziale fallimento dei “Social Forum” che inizialmente potevano essere considerati un interessante esperimento politico di base ma che, col trascorrere del tempo, sono stati infiltrati e inquinati dai politici di professione e dalle loro rappresentanze organizzate. Un fallimento parallelo a quello delle riunioni dei G8 che ormai sono diventate ancora più inutili che in passato, anche senza contestazioni.
Restano i segni di una stagione fondamentale nel campo dell’informazione indipendente come si può vedere dai numerosi siti web nati in questi ultimi anni che provano a fare informazione dal basso. La lezione di Indymedia, sebbene questo progetto oggi abbia un impatto sul panorama mediatico molto ridotto rispetto a quello che ha avuto nell’ultimo decennio, è stata fondamentale per tutti coloro che vogliono opporsi concretamente allo strapotere dei mass-media.
Resta la distanza tra le inchieste giornalistiche, le teorie del complotto, le commissioni parlamentari e tutti quelli che continuano a considerare quegli avvenimenti come eccezionali (“una sospensione delle regole della democrazia” continuano a chiamarli) e quello che è successo prima di Genova e dopo, che fornisce l’esatta misura di quanto l’illegalità di Stato sia la regola e non l’eccezione.
Resta sicuramente anche altro, soprattutto nel vissuto di chi quei giorni era in piazza. Ricordi che nessuna menzogna, comprese quelle sancite dalla legge, potrebbero mai cancellare. Memorie che verranno forse rielaborate e stravolte dal tempo ma che manterranno – in ogni caso – la loro forza per una intera generazione.
Restano infine le macchie di sangue, in Piazza Alimonda, alla Scuola Diaz, a Bolzaneto , ma quelle sono indelebili.
Per fortuna restano anche le lotte odierne, quelle che in apparenza sembrano essere tornate all’interno di un ristretto ambito locale, lasciando sullo sfondo le tematiche della globalizzazione. L’opposizione alla devastazione ambientale, le lotte dei migranti, quelle dei precari, sono (in un certo senso) la continuazione di quelle che portarono nel 2001 a Genova centinaia di migliaia di persone, la maggior parte delle quali pensavano fosse possibile un mondo migliore.
Ci resta ancora quello vecchio, da smontare e ricostruire a partire da oggi e non da domani.

Pepsy


 

Genova 20 anni e dopo (2)

Siamo pericolosamente vicini al ventiversario di quel fine settimana del luglio 2001 quando, a Genova, avvennero cose difficili da dimenticare.
A ricordare quello che accadde tra il 19 e il 21 luglio del 2001 ci stanno già pensando in molti e altri sicuramente si aggiungeranno nei giorni che seguono.
Qui propongo qualcosa di diverso, perché i “Fatti del G8 di Genova” non terminano il 21 o il 22 luglio del 2001, come sarebbe troppo comodo far credere, ma continuano anche negli anni successivi… per molti anni.
Ho raccolto alcune delle cose scritte in quegli anni e comparse tutte sul settimanale anarchico “Umanità Nova”. Articoli datati e probabilmente con qualche errore, ma che forse potrebbero servire a raccontare a chi non c’era e a ricordare per chi ha dimenticato.

Qui i primi articoli, di seguito altri quattro, appena ho voglia e tempo ne seguiranno altri, in alcuni casi sono stati cambiati i titoli originali.


Umanità Nova, n.6 del 20 febbraio 2005

G8: i processi. Dimenticare Genova?

Non sono ancora passati quattro anni dalle giornate del luglio 2001 a Genova ma, sotto certi aspetti, sembra che ne siano passati molti di più. La mobilitazione che si era sviluppata nei mesi immediatamente successivi era proseguita per un anno intero, fino ad arrivare alle manifestazioni del luglio 2002 che testimoniavano un interesse ancora vivo per quanto era accaduto durante le giornate di protesta contro il G8.

Oggi, invece, molti segnali provenienti dalla città ligure e non solo, fanno sembrare arenata quella forte spinta. E la cosa è tanto più preoccupante in quanto, proprio negli ultimi mesi, si sono aperti alcuni procedimenti giudiziari che prendono le mosse proprio dai fatti di Genova.

I filoni processuali principali vedono coinvolte poco più di un centinaio di persone, in veste di imputati, di vittime o di testimoni di quanto accaduto. E’ chiaramente impossibile, nello spazio a disposizione, dare un quadro esauriente di tutto il complesso aspetto legale dei singoli processi, ci limitiamo quindi a qualche informazione essenziale e rimandiamo chi vuole approfondire l’argomento alle indicazioni alla fine del testo.

Il 2 marzo dello scorso anno è iniziato il procedimento penale contro 26 persone (ma uno verrà processato a parte) accusate di “devastazione e saccheggio” e fin dall’inizio si è capito che non sarebbe stato un processo facile.
Le prime udienze si sono incentrate principalmente sulle prove portate dall’accusa, vale a dire su foto e video che dovrebbero dimostrare la colpevolezza degli imputati. La difesa ha controbattuto chiedendo di prendere in considerazione esclusivamente materiali integrali e non i montaggi video fatti dalla polizia municipale. Come dovrebbe essere ovvio le fotografie si possono “tagliare” ed i filmati si possono montare in diversi modi al fine di avvalorare una tesi piuttosto che un’altra e, per queste ragioni, la difesa ha chiesto anche di entrare in possesso di una copia delle immagini originali utilizzate dall’accusa.

Così, in attesa che la difesa studi il materiale, la Corte ha deciso di procedere ad interrogare i testimoni che non hanno bisogno di supporti visivi per la loro deposizione. Prima della sospensione estiva la difesa, dopo aver finito di visionare tutto il materiale, ha presentato alcune memorie nelle quali si contesta l’uso che viene fatto delle prove.
Il processo è ripreso a settembre 2004 ed è andato avanti, con udienze settimanali, fino al 21 dicembre, per riprendere poi l’11 gennaio di quest’anno.

Vale la pena di ricordare che, oltre a questi 26, ci sono anche altre decine di indagati per altri episodi relativi agli scontri e, solo pochi giorni or sono, è comparsa sulla stampa la notizia di tre nuove denunce.

Il secondo strascico giudiziario del luglio genovese riguarda l’assalto in puro stile cileno alla Scuola Diaz, quando vennero pestati a sangue (61) ed arrestati (93) compagni e compagne che stavano dormendo in quei locali.
Il 13 dicembre 2004, dopo una ventina di udienze, si è conclusa la fase preliminare di questo procedimento che vede sul banco degli imputati 28 agenti di polizia tra quelli che parteciparono alla mattanza, accusati di falso e calunnia, lesioni personali, furto, danneggiamento e perquisizione illegale.

Nonostante la pressione politica esercitata a favore dei poliziotti, i giudici li hanno rinviati tutti a giudizio, e forse non potevano fare altrimenti, vista la mole di prove: tutti ricorderanno le molotov portate in loco dagli agenti ed il presunto ferimento di uno degli incursori.
Il processo vero e proprio dovrebbe iniziare il 6 aprile 2005.

Un terzo procedimento giudiziario riguarda le violenze subite dagli arrestati durante le manifestazioni all’interno delle caserme, il nome di Bolzaneto è ancora tristemente scolpito nella memoria di molti.
Questo processo si è aperto il 27 gennaio scorso con l’udienza preliminare nella quale l’accusa ha chiesto il rinvio a giudizio per 47 persone (tra agenti e dirigenti di ps e di polizia penitenziaria, carabinieri, medici e infermieri) per una serie di reati che vanno dalla violenza privata al falso ideologico.
Anche in questo caso la pressione politica per salvaguardare le forze del disordine è stata notevole e il processo ha rischiato seriamente di non partire nemmeno.

A questi tre processi bisogna aggiungere anche quello contro la “Rete del Sud Ribelle” apertosi il 2 dicembre scorso a Cosenza e che vede imputati 13 persone accusate addirittura di “Cospirazione politica mediante associazione”, un tipico reato di opinione, che dovrebbe chiudere il cerchio riguardando i “cervelli” dei disordini del luglio 2001. Una buona notizia arriva subito dopo la prima udienza in quanto è stato revocato (dopo un anno!) l’obbligo di firma che ancora pesava su 3 degli accusati.
La prossima udienza è fissata per il prossimo 23 febbraio.

Quattro processi non sono pochi e meriterebbero, da parte del movimento di opposizione, molta più attenzione di quanto ne abbiano avuta fino a questo momento. Infatti, come spesso accade, dopo la mobilitazione “a caldo” di tutte le componenti del movimento scese in piazza in quei giorni a Genova, la tensione è scemata e ad interessarsi dell’andamento dei processi non ci sono che pochissime persone. Questa fase di stanca è segnalata anche da uno dei gruppi che si occupa del supporto legale, che si trova in condizioni economiche precarie e che ha lanciato un appello alla sottoscrizione per far fronte alle inevitabili spese che procedimenti giudiziari del genere comportano.

Il rischio è che col passare del tempo questi processi spariscano definitivamente dall’orizzonte degli interessi dei compagni e che la storia di quello che è accaduto nel luglio 2001 a Genova cada definitivamente nel dimenticatoio o venga riscritta esclusivamente nelle aule dei tribunali ad uso e consumo del potere.

Sappiamo, come anarchici, che un tribunale non è certo il luogo dove si possa attendere una “giustizia” ma sappiamo anche che la mobilitazione in sostegno agli accusati e la controinformazione sulle violenze esercitate dagli apparati dello stato a Genova dovrebbe essere quasi un “obbligo” per un movimento che invece sembra aver perso parte della sua vitalità proprio quando ce ne sarebbe maggiormente bisogno.

Pepsy

Per non dimenticare, per attivarsi e per saperne di più ecco alcuni indirizzi dei siti web che stanno informando in modo continuo sui processi:

http://italy.indymedia.org/
Sicuramente il punto di partenza obbligato, soprattutto (ma non solo) perché alcuni degli attivisti di Indymedia stanno partecipando direttamente al supporto legale. Andando nelle sezioni degli IMC locali “Genova” e “Calabria” si trovano informazioni aggiornate sulle udienze.

https://supportolegale.org/
Qui si trovano le informazioni per chi vuole contribuire alle spese o partecipare al lavoro di supporto.

http://www.sciroccorosso.org/
Informazioni ed analisi sul processo di Cosenza.

http://www.veritagiustizia.it/
Sito del “Comitato verità e giustizia per Genova”.


Umanità Nova, n.13 del 17 aprile 2005

G8 di Genova: continuano i processi. Tra silenzio e indifferenza

Proseguono, ognuno per la propria strada, le appendici giudiziarie del luglio genovese che, come già scritto su queste pagine (vedi “Umanità Nova” n.6, 2005), solo in poche occasioni riescono a superare la barriera di disinteresse dei mass-media e di parte del movimento di opposizione.

Il processo contro i “black bloc” è quello in fase più avanzata anche se nelle scorse settimane ha avuto un momento di pausa a causa di un episodio che la dice lunga sull’atmosfera nella quale si stanno svolgendo le udienze.
Infatti, il 16 marzo scorso, in seguito a una denuncia per diffamazione, sono stati sequestrati due computer portatili usati dai consulenti del gruppo di supporto legale che collaborano con i difensori dei 25 imputati di devastazione e saccheggio. Gli avvocati della difesa hanno chiesto a questo punto un rinvio delle udienze in quanto il sequestro danneggiava il loro lavoro, istanza che è stato accettata dalla Corte.
Il processo è ripreso quindi il 5 aprile e prosegue con la sfilata dei testi, per la maggior parte agenti delle forze del disordine, chiamati a riconoscere gli imputati. Nel corso delle udienze è stato rivelato anche un segreto di pulcinella, vale a dire che la prassi della Digos prevede la compilazione di elenchi dei partecipanti alle assemblee “non autorizzate”.
Fino ad oggi i computer sequestrati non sono stati ancora restituiti e si è diffusa la voce che siano arrivati a Torino, da dove era partita la denuncia per diffamazione, danneggiati. Quando si dice il caso!

Come previsto è regolarmente iniziato il 6 aprile il processo ai 28 agenti che la notte del 21 luglio 2001 entrarono – ospiti sgraditi – nella scuola Diaz e nel mediacenter. Questo processo avrà vita difficile in quanto è stato già rinviato al 19 maggio, alla vigilia di una probabile sospensione estiva ed è noto che alla ripresa autunnale dovrà cambiare (per ragioni che non riguardano il processo stesso) il collegio giudicante e quindi molto probabilmente ripartirà da capo. Il rischio concreto è che finisca tutto in prescrizione.
Da segnalare che, alla vigilia della prima udienza, “Amnesty International” ha diffuso un comunicato nel quale chiede “misure più efficaci” contro la “frequente impunità” delle forze dell’ordine, sottolineando il fatto che la maggior parte degli agenti coinvolti nel raid teppistico erano mascherati e non portavano segni identificativi.

Giusto per non dimenticare ricordiamo che alla fine dell’assalto in stile squadroni della morte alla Scuola Diaz, furono fermate 92 persone: 58 uomini e 34 donne, la più giovane aveva 19 e la più anziana 64 anni.
Solo 16 di loro (evidentemente per mero caso) restarono illese, la maggior parte infatti fu colpita a manganellate e calci, alcuni furono presi a seggiolate in testa o trascinati per le scale. Quelli più fortunati riportarono solo contusioni più o meno lievi, quelli meno furono letteralmente massacrati: traumi cranici, fratture e lesioni in diverse parte del corpo.

Continuano anche le udienze preliminari del processo per le torture inflitte a Bolzaneto, un episodio strettamente collegato, anche se non dal punto di vista giudiziario, con quello precedente non solo perché la quasi totalità dei fermati alla Diaz finì poi nella tristemente nota caserma, ma anche per il cumulo di violenza e le bugie che i responsabili (di ogni ordine e grado) hanno raccontato per tentare di giustificare i loro abusi. Non è ancora chiaro quanti tra i fermati nei giorni del G8 furono portati a Bolzaneto, quello che è sicuro è che il trattamento loro riservato fu indegno, ci sono più di 160 denunce per i maltrattamenti fisici e psicologici subiti che vanno dalle umiliazioni corporali, alle mutilazioni (taglio di un codino, rimozione violenta di un piercing) alle “semplici” botte con manganelli o senza.

Infine, il processo contro la rete del “Sud Ribelle” sta andando avanti a Cosenza dopo la sceneggiata televisiva di fine febbraio quando durante una discussa trasmissione giornalistica sono state mandate in onda delle registrazioni di intercettazioni telefoniche di alcuni imputati (Vedi “Umanità Nova” n.8, 2005) con il chiaro intento di sostenere le accuse rivoltegli. E nell’udienza del 30 marzo il Pubblico Ministero ha appunto depositato le “prove” contro gli accusati che consistono principalmente in una serie di intercettazioni e filmati, tra i quali anche alcune di quelle già passate sul piccolo schermo. La difesa ha chiesto un rinvio, accolto, e il processo è stato aggiornato al 13 aprile prossimo.

Quelle sopra sono solo brevi note, tratte principalmente dai siti web già citati nel precedente articolo, ai quali rimandiamo per maggiori informazioni.

Nonostante la frammentazione in varie sedi processuali, resta fondamentale mantenere alta l’attenzione su quanto accade in quelle aule e ancora di più impegnarsi nella solidarietà attiva ai compagni inquisiti e nel sostegno, morale e materiale, ai gruppi che seguono i processi.

Pepsy


Umanità Nova, n.24 del 3 luglio 2005

Processati a Genova, promossi a Roma

Nell’ultimo mese, tra un arresto e l’altro, sono andati avanti anche i processi legati ai fatti del G8 di Genova e dei quali “Umanità Nova” si è già occupata in diverse occasioni.

Il gruppo di supporto legale ha diffuso un comunicato nel quale anticipa che sarebbero in arrivo altre denunce. Si parla di quasi duecento avvisi di reato con le solite imputazioni legate ai cortei e di una cinquantina per devastazione e saccheggio. Questo fa pensare che la stretta repressiva di questi ultimi tempi non sia una semplice casualità, ma si inserisca in un processo più ampio con chiare caratteristiche politiche, come dimostra la sorte del filone giudiziario che vede le forze del disordine sul banco degli imputati.

Proprio da quest’ultimo arrivano infatti due importanti novità, la prima è una parziale archiviazione del procedimento a carico di 12 degli assaltatori della Scuola Diaz e la seconda sono le promozioni di due funzionari ben noti alle cronache del luglio genovese. Vincenzo Canterini, ex comandante del reparto mobile di Roma, uno dei capi del commando che massacrò 93 persone nella Scuola Diaz e Alessandro Perugini, l’ex numero due della Digos di Genova, noto per il calcione sferrato ad un manifestante e rinviato a giudizio con altri 44 complici per le responsabilità avute nella gestione della caserma di Bolzaneto, sono stati entrambi promossi ad incarichi superiori.

Qualcuno ha letto in questo provvedimento una sorta di rigraziamento per il lavoro ben svolto (dal loro punto di vista) a Genova, ma l’accaduto potrebbe essere anche solo una dimostrazione della protervia del potere, visto che difficilmente i procedimenti giudiziari a carico di questi “eroi” porteranno a qualche risultato concreto.

Intanto il processo ai compagni va avanti e la trascrizione delle varie udienze viene puntualmente pubblicata su internet (www.supportolegale.org) dal gruppo di supporto legale. Proseguono le deposizioni di vari personaggi, soprattutto poliziotti, ancora a proposito delle identificazioni dei manifestanti attraverso i materiali video-fotografici usati dall’accusa.
Alcune sedute sono davvero interessanti, come per esempio la 53ma nella quale viene sentito un esperto della polizia a proposito dei sistemi in uso per riconoscere le persone attraverso l’analisi delle immagini; leggendola ci si può fare una precisa idea dei metodi adoperati dalla repressione nel XXI secolo.
Il processo continuerà probabilmente fino al 19 luglio quando ci sarà la pausa estiva. E’ stato invece rinviato al 17 novembre il processo contro cinque poliziotti (tra i quali il Perugini citato sopra) per diversi reati commessi durante le giornate di Genova.

Sul lato della cronaca va segnalato che il Ministero degli Interni è stato condannato al pagamento di un risarcimento di 28 mila euro a beneficio di due donne che il 20 luglio 2001 furono picchiate da un gruppo di agenti.

Procede invece a singhiozzo il processo di Cosenza, una udienza ad aprile ed una praticamente inutile a giugno, nella quale è stato rinviato tutto al 22 settembre prossimo. Da notare la cialtroneria informatica scoperta dagli avvocati difensori che, mentre visionavano l’ultimo materiale sequestrato dall’accusa e consegnato loro dalla segreteria del tribunale, hanno trovato al suo interno una copia dell’hard disk del computer dello stesso PM.

Nulla di fatto anche per il processo per i fatti di Napoli del marzo 2001 che, iniziato il primo giugno, è stato subito rinviato al 14 ottobre. Continua invece ma, guarda caso, sottotono il processo ai poliziotti che si resero protagonisti, nella Caserma Raniero, di abusi nei confronti dei compagni fermati durante la manifestazione di Napoli.

L’aridità delle cronache giudiziarie non favorisce certo lo sviluppo della solidarietà e della mobilitazione ma, gli ultimi avvenimenti e la continuità dell’attenzione repressiva sui movimenti antiistituzionali, necessitano di risposte di tipo complessivo e maggiormente diffuso.
Risposte che siano in grado di coinvolgere e di rompere il silenzio assordante che continua a pesare su tutto quello che avviene e non solo nelle aule dei tribunali.

Pepsy


Umanità Nova, n.32 del 9 ottobre 2005

Genova, 20 luglio 2001. Delitto fascista o delitto di stato?

Il 20 settembre scorso è ripreso a Genova il procedimento giudiziario contro 25 manifestanti accusati di devastazione e saccheggio avvenuti durante le manifestazioni contro il G8 del luglio 2001. In queste prime udienze dopo la pausa estiva sono proseguite le testimonianze degli esponenti delle forze dell’ordine coinvolte nelle operazioni di repressione.

Protagonista del giorno è stato sicuramente Mario Placanica, l’assassino di Carlo Giuliani, la cui testimonianza era attesa da tempo.
Ovviamente il previsto arrivo ha solleticato l’interesse dei mass-media, solitamente distratti a proposito di quanto accade in questo ed in altri processi. Attesa rimasta delusa in quanto il testimone, nonostante quanto avesse in precedenza dichiarato il suo avvocato, si è avvalso della facoltà di non rispondere e, fatto atto di presenza, ha abbandonato la scomoda sedia.

Voci maligne hanno suggerito che la scena muta recitata dall’ex carabiniere potrebbe avere qualcosa a che fare con il suo prossimo futuro: solo qualche giorno prima dell’udienza infatti, un giornale calabrese aveva dato notizia della sua presenza ad una iniziativa politica di Alleanza Nazionale, svoltasi alla presenza di Gasparri. E qualche giorno dopo, su un altro giornale, in una intervista la notizia è diventata ufficiale, con tanto di dichiarazione delle idee politiche (“sempre stato di destra”) professate.
Una chiara scelta di campo che non meraviglia più di tanto, come non sorprenderebbe l’accettazione della sua candidatura tra le file dei post-fascisti. Sarebbe solo una ulteriore conferma del ruolo svolto da Gianfranco Fini durante le giornate di Genova.

Tornando al processo, nell’udienza precedente il maggiore dei paracadutisti Cappello, interrogato in quanto presente in piazza Alimonda durante gli scontri, ha dichiarato di aver dato lui stesso a Placanica l’ordine di montare sul gippone in quanto non lo riteneva in condizioni di reggere la situazione che si era venuta a creare. Per il resto la testimonianza dell’ufficiale ha brillato dei soliti di “non ricordo” riguardo a quanto accaduto prima e dopo l’omicidio del compagno.

Ancora in queste udienze il tema centrale è stato l’identificazione dei presunti devastatori e saccheggiatori e, stando a quello che si legge, il meccanismo sul quale si sono basati i riconoscimenti è sempre lo stesso: partendo da una foto o da un filmato si è cercato qualche funzionario di polizia in grado di dare un nome e cognome ad una persona (magari ripresa di spalle e mascherata) mai fermata ed identificata sul posto. Da cui il rimpallo tra i vari funzionari della Digos a proposito di come e da chi sia stato riconosciuto tizio o caio.

A settembre è ripreso a Cosenza anche il processo al “Sud Ribelle”, nella prima udienza gli imputati non si sono presentati in aula ed hanno partecipato ad una assemblea di movimento.

Per finire una buona ed una cattiva notizia: durante l’estate si è costituito a Cosenza la Segreteria Legale che, nata all’interno del progetto di Supporto Legale che già lavora a Genova, si è data il compito di seguire da vicino il processo calabrese. La cattiva è che sono state ufficialmente confermate (ma qualcuno forse ne dubitava?) le promozioni-premio di Vincenzo Canterini e di Alessandro Perugini due dei più noti protagonisti della mattanza di Genova.

Nei prossimi mesi riprenderanno anche gli altri procedimenti giudiziari legati ai fatti del luglio di quattro anni fa, una storia che andrebbe liberata dai verbali dei tribunali.

Pepsy


Articoli precedenti:
Genova 20 anni e dopo (1)

Genova 20 anni e dopo (1)

Siamo pericolosamente vicini al ventiversario di quel fine settimana del luglio 2001 quando, a Genova, avvennero cose difficili da dimenticare.
A ricordare quello che accadde tra il 19 e il 21 luglio del 2001 ci stanno già pensando in molti e altri sicuramente si aggiungeranno nei giorni che seguono.
Qui propongo qualcosa di diverso, perché i “Fatti del G8 di Genova” non terminano il 21 o il 22 luglio del 2001, come sarebbe troppo comodo far credere, ma continuano anche negli anni successivi… per molti anni.
Ho raccolto alcune delle cose scritte in quegli anni e comparse tutte sul settimanale anarchico “Umanità Nova”. Articoli datati e probabilmente con qualche errore, ma che forse potrebbero servire a raccontare a chi non c’era e a ricordare per chi ha dimenticato.

Di seguito i primi tre, appena ho voglia e tempo ne seguiranno altri, in alcuni casi sono stati cambiati i titoli originali.


Da “Umanità Nova” n.28 del 5 agosto 2001

Scheda: il “Black Bloc”

Numerosi sono stati, su tutti i media, i giornalisti che si sono esercitati a fare disinformazione a proposito del “Black Bloc”, diventato per tutti il comodo capro espiatorio di tutto quanto accaduto a Genova.

Il “Blocco Nero” non è una organizzazione e forse nemmeno una “rete” come ha scritto qualcuno ma piuttosto una “pratica” che si è diffusa negli ultimi anni tra gruppi di militanti rivoluzionari di varie regioni dell’Europa settentrionale e dell’America del Nord.

Alcuni hanno anche collegato (ed a volte confuso) il “Black Bloc” allo “schwartzeblock”, da cui prenderebbe il nome e l’abitudine di vestire di nero. Quest’ultimo è un’area di militanti tedeschi che ha caratterizzato, a partire dalla metà degli anni ’80, con le sue azioni i punti più alti dello scontro sociale in Germania: ad Amburgo (1986) per evitare lo sgombero di un complesso di case occupate, a Berlino (1987) durante la visita di Reagan e sempre nella stessa città in occasione di una riunione della Banca Mondiale (1988). Il “Blocco Nero” tedesco nasce all’interno del più vasto movimento degli “autonomen” che, fin dal nome, si ricollegano ad alcune teorie e pratiche di parte della “Autonomia Operaia” italiana degli anni ’70.

Il “Black Bloc” invece, seppure raccogliendo l’eredità dei compagni tedeschi, è di nascita molto più recente. Prima della sua apparizione in grande stile alla battaglia di Seattle (novembre 1999) si erano visti gruppi di militanti in nero partecipare ad alcune manifestazioni svoltesi durante la Guerra del Golfo e contro il WTO. La loro vera e propria prima uscita risale all’aprile del 1999, in occasione delle manifestazioni, svoltesi in diverse città statunitensi, a favore della liberazione di Mumia Abu Jamal.

Dopo i fatti di Seattle, non c’è stata alcuna manifestazione contro la globalizzazione in Nord America dove non sia comparso il “Black Bloc”: da Washington a Montreal, da Quebec City a Baltimora. Nel corso delle manifestazioni “antiglobal” dello scorso anno in Europa (Italia esclusa) spesso si sono visti gruppi di militanti vestiti di nero partecipare agli scontri.

Come ricordato a più riprese in tutti i documenti diffusi, la pratica che contraddistingue il “Blocco Nero” è quella di attacco diretto alle proprietà delle imprese capitalistiche nazionali e multinazionali, mentre non rientra nella loro prassi l’aggressione a persone o proprietà individuali, salvo che in caso di autodifesa.

A Genova, grazie anche alla disinformazione di tutti i media, il tentativo di criminalizzazione del “Blocco Nero” e degli anarchici ai quali sono stati attribuiti tutti gli incidenti ed i danneggiamenti, è servito in parte anche da comodo paravento per distrarre l’attenzione dal fallimento completo delle pratiche di patteggiamento e di compromesso con le istituzioni portate avanti da settori del movimento.

Pepsy


Da “Umanità Nova” n.26 del 21 luglio 2002

Letture: Genova in bianco e nero

In questi giorni, anniversario delle giornate di Genova del luglio 2001, viene diffuso l’ultimo di una lunga serie di prodotti editoriali in ricordo di avvenimenti ancora ben vivi nella memoria di molti.

“Genova. Il libro bianco”, distribuito insieme a “L’Unità”, “Liberazione”, “il manifesto” e “Carta”, periodici che già, nei mesi passati, hanno veicolato altri materiali sullo stesso argomento, è composto da un fascicolo curato dal Gruppo Comunicazione del Milano Social Forum e da un CD-Rom curato dal Coordinamento dei Collettivi di Pisa. La firma dell’iniziativa è quella del “Genoa Social Forum” (GSF).
Il lavoro è corposo: il fascicolo di 225 pagine, raccoglie circa 500 foto, vari articoli e testimonianze, il CD che riproduce in buona parte il suo contenuto, aggiunge altre centinaia di foto, filmati e documenti vari. Si tratta del tentativo di sistematizzare e di storicizzare avvenimenti che hanno visto protagoniste centinaia di migliaia di persone e che hanno segnato in Italia, dal punto di vista della partecipazione numerica, il punto più alto della protesta del cosiddetto movimento no-global.
Nel “libro bianco” viene raccontata nei particolari la cronaca del 19, 20 e 21 luglio e dato conto dei principali avvenimenti precedenti e successivi, un ampio spazio è lasciato alle testimonianze personali dei partecipanti e una rassegna stampa riprende stralci tratti dalle migliaia di articoli pubblicati sui principali quotidiani in quel periodo.

Il grosso limite di questa operazione è però quello di pretendere, come specificato fin dalla premessa, di presentare “la verità dei fatti” (V. Agnoletto, pag.8) su Genova. E quale sia questa “verità” è chiaramente scritto e ribadito un numero infinito di volte, sia nel fascicolo che nel CD:

1. la “giusta linea” politica contro la globalizzazione si è espressa, prima durante e dopo, le manifestazioni di Genova esclusivamente attraverso l’azione del GSF, unico rappresentante del “movimento”;

2. il massacro dei manifestanti in piazza è stato causato, in misura uguale dai “Black Bloc” (BB) – pieni di “infiltrati” – e dalle forze di polizia.

Entrambi le tesi non sono una novità, sia perché la necessità di indicare la “linea” ed identificare un “nemico” è stata sempre storicamente una prassi comune a tutte le organizzazioni autoritarie, comprese quelle che si arrogano il diritto di parlare in nome degli sfruttati, sia perché questo genere di mistificazione, iniziato a manifestarsi già prima di Genova, aveva già trovato ripetute occasioni per riproporsi.

In particolare, due tra i video più diffusi nei mesi scorsi (“Genova per noi” e “Un mondo diverso è possibile”) avevano già raccontato la storia di quei giorni sottolineando a più riprese il ruolo dei provocatori violenti, individuati sempre e solo nei famigerati BB e, a fare da contraltare, l’estrema positività di tutto quanto proveniente dal GSF. Lo stesso discorso vale per diversi materiali scritti circolati nell’ultimo anno.

Nelle pagine del “libro bianco” il ritornello che, riproposto in tutte le sue varianti, si sente per tutte le pagine è sempre lo stesso e parte dall’affermazione che a Genova ha agito un “gruppo violento che nulla aveva da spartire con il movimento” (pag.7):

“compaiono alcuni ragazzi vestiti di nero (…) si stanno organizzando per la battaglia (…) nessuno interviene” (pag.60); “uno ci dice che i black bloc hanno le molotov e che senz’altro le tireranno contro le persone del sit-in” (pag.61); “i black bloc percorrono indisturbati corso Torino (…) nessuno interviene” (pag.62-3); “poi la banda risale la scalinata che porta a via Nizza (…) nessuno interviene” (pag.63); “non possiamo esimerci dal fare alcune considerazioni riguardo alla libertà di azione che hanno avuto i black bloc” (pag.64); “i black bloc stanno mettendo a ferro e fuoco la città da ormai tre ore. Indisturbati” (pag.65); “i black fuggono per primi (…) la polizia attacca. Non i black” (pag.67). E qui ci fermiamo con le citazioni, ma solo per mancanza di spazio.

Insomma Bianco da una parte e Nero dall’altra, come nella migliore tradizione manichea. E fin qui nulla di male, solo che tale legittima tesi viene difesa in modo talmente cialtronesco da offendere l’intelligenza di chiunque.

Si veda, ad esempio, la delicata questione “infiltrati”: a più riprese è stato sostenuto (fin dal luglio 2001) che esistono “numerose” prove documentate che collegherebbero i BB alla polizia, ma le uniche foto che vengono pubblicate sono talmente ridicole da rendere superfluo qualsiasi tentativo di commento. Controllare per credere a pag.9 ed a pag.118-9.
Ancora a proposito di “infiltrati”, nell’articolo “Ombre Nere su Genova” (pagg.118-121), si legge: “Del resto nel variegato mondo del black bloc, oltre agli anarchici, ai casseurs, ci sono i naziskin della Germania orientale, le teste rasate dei Blood and Honour, SSS, gruppo 88.” (pag.118) e, a sostegno di questa brillante affermazione, viene ripreso un documento “riservato” della Questura di Genova dove si legge qualcosa di un po’ diverso: “In particolare è stato segnalato che alcuni membri torinesi di Forza Nuova costituirebbero un nucleo di 25-30 militanti fidati da infiltrare tra i gruppi delle tute bianche” (pag.120).

Inutile poi cercare nelle duecento e passa pagine del “libro bianco” e nelle centinaia di MegaBytes del CD la segnalazione di qualche esperienza o l’espressione di qualche posizione politica che sia esterna al GSF ed alle sue componenti o anche solo tiepidamente critica verso le loro scelte.

In definitiva la pretesa di raccontare la “verità” sugli avvenimenti del luglio 2001 si riduce ad una comoda autoassoluzione del GSF ed in pesanti accuse verso i BB, tutto il resto semplicemente non è documentato e quindi non esiste. Non esiste nelle migliaia di foto pubblicate, nelle centinaia di articoli citati, nelle decine di testimonianze riportate.

Un modo veramente strano di “fare” la storia.

Pepsy


Da “Umanità Nova” n.7 del 29 febbraio 2004

Genova 2001. La resa dei conti?

Il prossimo 2 marzo si aprirà il processo contro 26 persone accusate di reati che sarebbero stati commessi in occasione delle manifestazioni contro il G8 del 2001 a Genova. Gli imputati, alcuni dei quali già hanno già subito il carcere ed altre misure restrittive della libertà personale, sarebbero colpevoli – tra gli altri – anche dei reati di saccheggio e devastazione per i quali il Codice Penale fascista ancora vigente prevede pene pesanti [1].

Nei giorni scorsi è arrivata anche la decisione del Comune di Genova di costituirsi parte civile contro i colpevoli dei danni causati in quei giorni, decisione già presa (ma era scontato) dai Ministeri dell’Interno, della Difesa e della Giustizia e dalla presidenza del consiglio. Il fatto ha provocato non pochi problemi nella Giunta di centro-sinistra che governa la città con l’appoggio di Rifondazione, a causa del voto favorevole dei due assessori del Prc e della successiva richiesta di dimissioni arrivata dai vertici del partito nei loro confronti. Da giorni sui quotidiani, locali e nazionali, si continua a scrivere di una possibile crisi della Giunta.

Da parte sua il Sindaco ha sostenuto che quello del Comune è un “atto dovuto” e che non riguarda i “danni morali”, ma solo quelli “materiali” [2].

Da quei giorni di luglio i fatti di Genova continuano ad essere minimizzati o esagerati a seconda del momento e della convenienza.

Per esempio, il medesimo Sindaco, qualche settimana dopo i fatti, affermava:

“Per la nostra città, dicevo all’inizio, i danni di tipo materiale sono parecchio limitati e credo che, se fossero stati solo quelli, probabilmente anche questa indagine non sarebbe stata deliberata. I danni che noi abbiamo subito penso siano danni non solo nostri ma di tutta la collettività nazionale, sono danni morali, per le violenze che abbiamo visto, per la morte di persone, (…)” [3]

E, ancora due mesi dopo, questa dichiarazione tesa a minimizzare l’accaduto veniva mantenuta, se non addirittura rinforzata: “Per fare un esempio: le trecento auto distrutte sono ventisette.” [4]

Il quadro che veniva dato era insomma quello di danni “materiali” tutto sommato limitati, ma di grossi danni “morali”, esattamente il contrario di quanto invece sostenuto oggi.

Ma non è certo la maggiore o minore entità reale dei danni a portare in giudizio poco più di due dozzine di persone che, se fosse vero quanto affermato dai rappresentanti delle istituzioni e cioè che i devastatori-saccheggiatori erano “una folla di circa 10.000 violenti” [5], sarebbero solo dei comodi capri espiatori.

D’altra parte un così ridotto numero di “colpevoli” sembrerebbe confermare le tesi sostenute, all’epoca, dai servizi:

“Le relazioni riservate del SISDE del 19 e 20 luglio hanno dato conto di due distinte riunioni degli esponenti che si richiamano ai black blockers (…). I servizi informano che circa 300/500 militanti si sarebbero concentrati, alle ore 12 in piazza Paolo Da Novi.” [6]

Ma non è finita qui, perché quasi contemporaneamente alla notizia della costituzione di parte civile del Comune di Genova, è arrivata la richiesta di rinvio a giudizio per 13 dei 20 indagati dalla magistratura di Cosenza nell’inchiesta sul “Sud Ribelle”. Anche in questo caso le accuse sono pesanti: “cospirazione politica a mezzo di associazione finalizzata ad attentare agli organi costituzionali in occasione delle giornate del G8, nel luglio 2001 a Genova”.
L’inchiesta, che persegue esclusivamente reati d’opinione – “A nessuno dei predetti viene contestato il concorso materiale in episodi di saccheggio e devastazione” [7] – sembra fatta apposta per colpire quella parte di movimento che non è stato possibile coinvolgere in altro modo nell’inchiesta genovese.

Così, da una parte si processano i presunti devastatori “materiali” e dall’altra si vorrebbero giudicare le “idee” che starebbero dietro agli incidenti, quadrando così il cerchio.

Dopo l’assoluzione dell’assassino di Carlo Giuliani e il balletto di responsabilità sui massacri operati da polizia e carabinieri, tutto questo sembra un tentativo di chiudere i conti con le centinaia di migliaia di persone confluite a Genova per protestare contro il G8.

Il teorema che spiega gli avvenimenti di quelle giornate e che accomuna destra e sinistra è sempre lo stesso fin dall’inizio: del movimento antiglobalizzazione fanno parte due anime delle quali una, la maggioritaria, è pacifica, conciliante e dialoga con le istituzioni (anche quando fa finta di disobbedirgli), mentre l’altra – minoritaria o pericolosamente numerosa a secondo della convenienza – è invece violenta, antagonista al potere costituito e, nei casi peggiori, anche sospetta di connivenze terroristiche, come ci raccontano i periodici Rapporti dei servizi.

Questo rende ancora più urgente richiamare l’attenzione di tutti sull’importanza delle prossime scadenze di solidarietà con tutti gli inquisiti che, visto l’aumento generalizzato della repressione politico-poliziesca (vedi anche la recente ondata di perquisizioni), rischiano di pagare un prezzo personale molto alto e che farebbe segnare, in caso di una loro condanna, un punto a favore di tutti coloro che vorrebbero ridurre al silenzio l’opposizione radicale.

Pepsy

 

Note

[1] “Art. 419 Devastazione e saccheggio. Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’art. 285 commette fatti di devastazione o di saccheggio è punito con la reclusione da otto a quindici anni.”

[2] “Secolo XIX”, 12/2/04.

[3] cfr. “Indagine conoscitiva sui fatti accaduti in occasione del vertice G8 tenutosi a Genova”, seduta del 7 agosto 2001, audizione del Sindaco di Genova.

[4] “Il Foglio”, 7/9/01.

[5] cfr. Atti relativi ai lavori del “Comitato Paritetico per un’indagine conoscitiva sui fatti di Genova”, pag. 185 e pag. 207.

[6] cfr. la relazione di minoranza dell’Ulivo all’interno del “Comitato Paritetico per un’indagine conoscitiva sui fatti di Genova” citata sopra.

[7] cfr. “Umanità Nova” n. 40 del 1 dicembre 2002.

[segue…]