Archivi categoria: Stampati

articoli pubblicati da qualche parte su carta

Genova 20 anni e dopo (1)

Siamo pericolosamente vicini al ventiversario di quel fine settimana del luglio 2001 quando, a Genova, avvennero cose difficili da dimenticare.
A ricordare quello che accadde tra il 19 e il 21 luglio del 2001 ci stanno già pensando in molti e altri sicuramente si aggiungeranno nei giorni che seguono.
Qui propongo qualcosa di diverso, perché i “Fatti del G8 di Genova” non terminano il 21 o il 22 luglio del 2001, come sarebbe troppo comodo far credere, ma continuano anche negli anni successivi… per molti anni.
Ho raccolto alcune delle cose scritte in quegli anni e comparse tutte sul settimanale anarchico “Umanità Nova”. Articoli datati e probabilmente con qualche errore, ma che forse potrebbero servire a raccontare a chi non c’era e a ricordare per chi ha dimenticato.

Di seguito i primi tre, appena ho voglia e tempo ne seguiranno altri, in alcuni casi sono stati cambiati i titoli originali.


Da “Umanità Nova” n.28 del 5 agosto 2001

Scheda: il “Black Bloc”

Numerosi sono stati, su tutti i media, i giornalisti che si sono esercitati a fare disinformazione a proposito del “Black Bloc”, diventato per tutti il comodo capro espiatorio di tutto quanto accaduto a Genova.

Il “Blocco Nero” non è una organizzazione e forse nemmeno una “rete” come ha scritto qualcuno ma piuttosto una “pratica” che si è diffusa negli ultimi anni tra gruppi di militanti rivoluzionari di varie regioni dell’Europa settentrionale e dell’America del Nord.

Alcuni hanno anche collegato (ed a volte confuso) il “Black Bloc” allo “schwartzeblock”, da cui prenderebbe il nome e l’abitudine di vestire di nero. Quest’ultimo è un’area di militanti tedeschi che ha caratterizzato, a partire dalla metà degli anni ’80, con le sue azioni i punti più alti dello scontro sociale in Germania: ad Amburgo (1986) per evitare lo sgombero di un complesso di case occupate, a Berlino (1987) durante la visita di Reagan e sempre nella stessa città in occasione di una riunione della Banca Mondiale (1988). Il “Blocco Nero” tedesco nasce all’interno del più vasto movimento degli “autonomen” che, fin dal nome, si ricollegano ad alcune teorie e pratiche di parte della “Autonomia Operaia” italiana degli anni ’70.

Il “Black Bloc” invece, seppure raccogliendo l’eredità dei compagni tedeschi, è di nascita molto più recente. Prima della sua apparizione in grande stile alla battaglia di Seattle (novembre 1999) si erano visti gruppi di militanti in nero partecipare ad alcune manifestazioni svoltesi durante la Guerra del Golfo e contro il WTO. La loro vera e propria prima uscita risale all’aprile del 1999, in occasione delle manifestazioni, svoltesi in diverse città statunitensi, a favore della liberazione di Mumia Abu Jamal.

Dopo i fatti di Seattle, non c’è stata alcuna manifestazione contro la globalizzazione in Nord America dove non sia comparso il “Black Bloc”: da Washington a Montreal, da Quebec City a Baltimora. Nel corso delle manifestazioni “antiglobal” dello scorso anno in Europa (Italia esclusa) spesso si sono visti gruppi di militanti vestiti di nero partecipare agli scontri.

Come ricordato a più riprese in tutti i documenti diffusi, la pratica che contraddistingue il “Blocco Nero” è quella di attacco diretto alle proprietà delle imprese capitalistiche nazionali e multinazionali, mentre non rientra nella loro prassi l’aggressione a persone o proprietà individuali, salvo che in caso di autodifesa.

A Genova, grazie anche alla disinformazione di tutti i media, il tentativo di criminalizzazione del “Blocco Nero” e degli anarchici ai quali sono stati attribuiti tutti gli incidenti ed i danneggiamenti, è servito in parte anche da comodo paravento per distrarre l’attenzione dal fallimento completo delle pratiche di patteggiamento e di compromesso con le istituzioni portate avanti da settori del movimento.

Pepsy


Da “Umanità Nova” n.26 del 21 luglio 2002

Letture: Genova in bianco e nero

In questi giorni, anniversario delle giornate di Genova del luglio 2001, viene diffuso l’ultimo di una lunga serie di prodotti editoriali in ricordo di avvenimenti ancora ben vivi nella memoria di molti.

“Genova. Il libro bianco”, distribuito insieme a “L’Unità”, “Liberazione”, “il manifesto” e “Carta”, periodici che già, nei mesi passati, hanno veicolato altri materiali sullo stesso argomento, è composto da un fascicolo curato dal Gruppo Comunicazione del Milano Social Forum e da un CD-Rom curato dal Coordinamento dei Collettivi di Pisa. La firma dell’iniziativa è quella del “Genoa Social Forum” (GSF).
Il lavoro è corposo: il fascicolo di 225 pagine, raccoglie circa 500 foto, vari articoli e testimonianze, il CD che riproduce in buona parte il suo contenuto, aggiunge altre centinaia di foto, filmati e documenti vari. Si tratta del tentativo di sistematizzare e di storicizzare avvenimenti che hanno visto protagoniste centinaia di migliaia di persone e che hanno segnato in Italia, dal punto di vista della partecipazione numerica, il punto più alto della protesta del cosiddetto movimento no-global.
Nel “libro bianco” viene raccontata nei particolari la cronaca del 19, 20 e 21 luglio e dato conto dei principali avvenimenti precedenti e successivi, un ampio spazio è lasciato alle testimonianze personali dei partecipanti e una rassegna stampa riprende stralci tratti dalle migliaia di articoli pubblicati sui principali quotidiani in quel periodo.

Il grosso limite di questa operazione è però quello di pretendere, come specificato fin dalla premessa, di presentare “la verità dei fatti” (V. Agnoletto, pag.8) su Genova. E quale sia questa “verità” è chiaramente scritto e ribadito un numero infinito di volte, sia nel fascicolo che nel CD:

1. la “giusta linea” politica contro la globalizzazione si è espressa, prima durante e dopo, le manifestazioni di Genova esclusivamente attraverso l’azione del GSF, unico rappresentante del “movimento”;

2. il massacro dei manifestanti in piazza è stato causato, in misura uguale dai “Black Bloc” (BB) – pieni di “infiltrati” – e dalle forze di polizia.

Entrambi le tesi non sono una novità, sia perché la necessità di indicare la “linea” ed identificare un “nemico” è stata sempre storicamente una prassi comune a tutte le organizzazioni autoritarie, comprese quelle che si arrogano il diritto di parlare in nome degli sfruttati, sia perché questo genere di mistificazione, iniziato a manifestarsi già prima di Genova, aveva già trovato ripetute occasioni per riproporsi.

In particolare, due tra i video più diffusi nei mesi scorsi (“Genova per noi” e “Un mondo diverso è possibile”) avevano già raccontato la storia di quei giorni sottolineando a più riprese il ruolo dei provocatori violenti, individuati sempre e solo nei famigerati BB e, a fare da contraltare, l’estrema positività di tutto quanto proveniente dal GSF. Lo stesso discorso vale per diversi materiali scritti circolati nell’ultimo anno.

Nelle pagine del “libro bianco” il ritornello che, riproposto in tutte le sue varianti, si sente per tutte le pagine è sempre lo stesso e parte dall’affermazione che a Genova ha agito un “gruppo violento che nulla aveva da spartire con il movimento” (pag.7):

“compaiono alcuni ragazzi vestiti di nero (…) si stanno organizzando per la battaglia (…) nessuno interviene” (pag.60); “uno ci dice che i black bloc hanno le molotov e che senz’altro le tireranno contro le persone del sit-in” (pag.61); “i black bloc percorrono indisturbati corso Torino (…) nessuno interviene” (pag.62-3); “poi la banda risale la scalinata che porta a via Nizza (…) nessuno interviene” (pag.63); “non possiamo esimerci dal fare alcune considerazioni riguardo alla libertà di azione che hanno avuto i black bloc” (pag.64); “i black bloc stanno mettendo a ferro e fuoco la città da ormai tre ore. Indisturbati” (pag.65); “i black fuggono per primi (…) la polizia attacca. Non i black” (pag.67). E qui ci fermiamo con le citazioni, ma solo per mancanza di spazio.

Insomma Bianco da una parte e Nero dall’altra, come nella migliore tradizione manichea. E fin qui nulla di male, solo che tale legittima tesi viene difesa in modo talmente cialtronesco da offendere l’intelligenza di chiunque.

Si veda, ad esempio, la delicata questione “infiltrati”: a più riprese è stato sostenuto (fin dal luglio 2001) che esistono “numerose” prove documentate che collegherebbero i BB alla polizia, ma le uniche foto che vengono pubblicate sono talmente ridicole da rendere superfluo qualsiasi tentativo di commento. Controllare per credere a pag.9 ed a pag.118-9.
Ancora a proposito di “infiltrati”, nell’articolo “Ombre Nere su Genova” (pagg.118-121), si legge: “Del resto nel variegato mondo del black bloc, oltre agli anarchici, ai casseurs, ci sono i naziskin della Germania orientale, le teste rasate dei Blood and Honour, SSS, gruppo 88.” (pag.118) e, a sostegno di questa brillante affermazione, viene ripreso un documento “riservato” della Questura di Genova dove si legge qualcosa di un po’ diverso: “In particolare è stato segnalato che alcuni membri torinesi di Forza Nuova costituirebbero un nucleo di 25-30 militanti fidati da infiltrare tra i gruppi delle tute bianche” (pag.120).

Inutile poi cercare nelle duecento e passa pagine del “libro bianco” e nelle centinaia di MegaBytes del CD la segnalazione di qualche esperienza o l’espressione di qualche posizione politica che sia esterna al GSF ed alle sue componenti o anche solo tiepidamente critica verso le loro scelte.

In definitiva la pretesa di raccontare la “verità” sugli avvenimenti del luglio 2001 si riduce ad una comoda autoassoluzione del GSF ed in pesanti accuse verso i BB, tutto il resto semplicemente non è documentato e quindi non esiste. Non esiste nelle migliaia di foto pubblicate, nelle centinaia di articoli citati, nelle decine di testimonianze riportate.

Un modo veramente strano di “fare” la storia.

Pepsy


Da “Umanità Nova” n.7 del 29 febbraio 2004

Genova 2001. La resa dei conti?

Il prossimo 2 marzo si aprirà il processo contro 26 persone accusate di reati che sarebbero stati commessi in occasione delle manifestazioni contro il G8 del 2001 a Genova. Gli imputati, alcuni dei quali già hanno già subito il carcere ed altre misure restrittive della libertà personale, sarebbero colpevoli – tra gli altri – anche dei reati di saccheggio e devastazione per i quali il Codice Penale fascista ancora vigente prevede pene pesanti [1].

Nei giorni scorsi è arrivata anche la decisione del Comune di Genova di costituirsi parte civile contro i colpevoli dei danni causati in quei giorni, decisione già presa (ma era scontato) dai Ministeri dell’Interno, della Difesa e della Giustizia e dalla presidenza del consiglio. Il fatto ha provocato non pochi problemi nella Giunta di centro-sinistra che governa la città con l’appoggio di Rifondazione, a causa del voto favorevole dei due assessori del Prc e della successiva richiesta di dimissioni arrivata dai vertici del partito nei loro confronti. Da giorni sui quotidiani, locali e nazionali, si continua a scrivere di una possibile crisi della Giunta.

Da parte sua il Sindaco ha sostenuto che quello del Comune è un “atto dovuto” e che non riguarda i “danni morali”, ma solo quelli “materiali” [2].

Da quei giorni di luglio i fatti di Genova continuano ad essere minimizzati o esagerati a seconda del momento e della convenienza.

Per esempio, il medesimo Sindaco, qualche settimana dopo i fatti, affermava:

“Per la nostra città, dicevo all’inizio, i danni di tipo materiale sono parecchio limitati e credo che, se fossero stati solo quelli, probabilmente anche questa indagine non sarebbe stata deliberata. I danni che noi abbiamo subito penso siano danni non solo nostri ma di tutta la collettività nazionale, sono danni morali, per le violenze che abbiamo visto, per la morte di persone, (…)” [3]

E, ancora due mesi dopo, questa dichiarazione tesa a minimizzare l’accaduto veniva mantenuta, se non addirittura rinforzata: “Per fare un esempio: le trecento auto distrutte sono ventisette.” [4]

Il quadro che veniva dato era insomma quello di danni “materiali” tutto sommato limitati, ma di grossi danni “morali”, esattamente il contrario di quanto invece sostenuto oggi.

Ma non è certo la maggiore o minore entità reale dei danni a portare in giudizio poco più di due dozzine di persone che, se fosse vero quanto affermato dai rappresentanti delle istituzioni e cioè che i devastatori-saccheggiatori erano “una folla di circa 10.000 violenti” [5], sarebbero solo dei comodi capri espiatori.

D’altra parte un così ridotto numero di “colpevoli” sembrerebbe confermare le tesi sostenute, all’epoca, dai servizi:

“Le relazioni riservate del SISDE del 19 e 20 luglio hanno dato conto di due distinte riunioni degli esponenti che si richiamano ai black blockers (…). I servizi informano che circa 300/500 militanti si sarebbero concentrati, alle ore 12 in piazza Paolo Da Novi.” [6]

Ma non è finita qui, perché quasi contemporaneamente alla notizia della costituzione di parte civile del Comune di Genova, è arrivata la richiesta di rinvio a giudizio per 13 dei 20 indagati dalla magistratura di Cosenza nell’inchiesta sul “Sud Ribelle”. Anche in questo caso le accuse sono pesanti: “cospirazione politica a mezzo di associazione finalizzata ad attentare agli organi costituzionali in occasione delle giornate del G8, nel luglio 2001 a Genova”.
L’inchiesta, che persegue esclusivamente reati d’opinione – “A nessuno dei predetti viene contestato il concorso materiale in episodi di saccheggio e devastazione” [7] – sembra fatta apposta per colpire quella parte di movimento che non è stato possibile coinvolgere in altro modo nell’inchiesta genovese.

Così, da una parte si processano i presunti devastatori “materiali” e dall’altra si vorrebbero giudicare le “idee” che starebbero dietro agli incidenti, quadrando così il cerchio.

Dopo l’assoluzione dell’assassino di Carlo Giuliani e il balletto di responsabilità sui massacri operati da polizia e carabinieri, tutto questo sembra un tentativo di chiudere i conti con le centinaia di migliaia di persone confluite a Genova per protestare contro il G8.

Il teorema che spiega gli avvenimenti di quelle giornate e che accomuna destra e sinistra è sempre lo stesso fin dall’inizio: del movimento antiglobalizzazione fanno parte due anime delle quali una, la maggioritaria, è pacifica, conciliante e dialoga con le istituzioni (anche quando fa finta di disobbedirgli), mentre l’altra – minoritaria o pericolosamente numerosa a secondo della convenienza – è invece violenta, antagonista al potere costituito e, nei casi peggiori, anche sospetta di connivenze terroristiche, come ci raccontano i periodici Rapporti dei servizi.

Questo rende ancora più urgente richiamare l’attenzione di tutti sull’importanza delle prossime scadenze di solidarietà con tutti gli inquisiti che, visto l’aumento generalizzato della repressione politico-poliziesca (vedi anche la recente ondata di perquisizioni), rischiano di pagare un prezzo personale molto alto e che farebbe segnare, in caso di una loro condanna, un punto a favore di tutti coloro che vorrebbero ridurre al silenzio l’opposizione radicale.

Pepsy

 

Note

[1] “Art. 419 Devastazione e saccheggio. Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’art. 285 commette fatti di devastazione o di saccheggio è punito con la reclusione da otto a quindici anni.”

[2] “Secolo XIX”, 12/2/04.

[3] cfr. “Indagine conoscitiva sui fatti accaduti in occasione del vertice G8 tenutosi a Genova”, seduta del 7 agosto 2001, audizione del Sindaco di Genova.

[4] “Il Foglio”, 7/9/01.

[5] cfr. Atti relativi ai lavori del “Comitato Paritetico per un’indagine conoscitiva sui fatti di Genova”, pag. 185 e pag. 207.

[6] cfr. la relazione di minoranza dell’Ulivo all’interno del “Comitato Paritetico per un’indagine conoscitiva sui fatti di Genova” citata sopra.

[7] cfr. “Umanità Nova” n. 40 del 1 dicembre 2002.

[segue…]

 

 

Autistici/Inventati. Un compleanno r-esistente

Anno di ricorrenze questo 2021, una concentrazione – almeno per gli anarchici – davvero affollata: dalla Comune di Parigi (1871) all’insurrezione di Kronstadt (1921), dalla morte di Pëtr Alekseevič Kropotkin (1921) a quella di Pietro Gori (1911), solo per citare gli anniversari più conosciuti. Peccato che la situazione attuale impedisca di ricordare degnamente avvenimenti e persone e che ci costringa a tristi celebrazioni fatte per via elettronica, un ripiego che non ha molte alternative. Per fortuna, per questo genere di iniziative non siamo costretti a usare gli strumenti gestiti dai giganti del profitto. Aziende che oltre a lucrare sui nostri dati sono complici della sorveglianza elettronica di massa, ma possiamo usare quelli messi a disposizione da realtà molto più compatibili con le nostre idee.
Una di queste realtà è “Autistici/Inventati” (A/I) che a marzo 2021 raggiunge il traguardo dei venti anni di attività, un risultato di tutto rispetto in un ambito, come quello della Rete, dove le meteore prevalgono sui pianeti, una storia che vale la pena di ricordare in questa occasione.
Un libro [*] ha già raccolto il racconto dell’inizio e dei primi anni di funzionamento di questo collettivo che non ha mai avuto una sede fisica ed è gestito quotidianamente da persone che vivono e lavorano in paesi e continenti diversi. A/I è il risultato concreto dei contatti e dei rapporti che si sono sviluppati verso la fine degli anni ’90 del secolo scorso tra alcuni che partecipavano alle esperienze dei primi “Hacklab”, soprattutto a Milano e altri che avevano iniziato a fare informazione indipendente nell’ambito dei Centri Sociali fiorentini e insieme a questi altri, quasi tutti provenienti da qualcuna delle tante aree di “movimento” di quegli anni.
Un collettivo del genere non poteva certo spuntare dal nulla. Le precedenti esperienze dei circuiti di BBS (bacheche elettroniche) italiane alternative come European Counter Network e CyberNet, la storia di “Isole nella Rete” che è stato il primo “server di movimento” e il nascente progetto degli “Hackmeeting” hanno sicuramente svolto un ruolo importante, direttamente e indirettamente, nella nascita di questo progetto. A sottolinearne le origini va ricordato che una buona parte della storia iniziale di A/I si sovrappone e quasi si confonde con quella legata alla creazione del nodo italiano di Indymedia e soprattutto ai suoi primi anni di funzionamento.
Il primo server della neonata associazione venne collegato in rete tra il marzo e l’aprile del 2001 e subito il collettivo di gestione iniziaò a fornire i primi indirizzi e-mail, ad aprire le prime liste di discussione, a ospitare i primi siti web. La presentazione “ufficiale” del progetto avrà come palcoscenico l’Hackmeeting di Catania nel giugno dello stesso anno.
Rimandiamo al libro citato quelli interessati a conoscere i dettagli (almeno quelli principali) dei primi dieci anni di una storia resistente punteggiata da sequestri dei server e da denunce affrontate sempre con una leggerezza spavalda che viene dalla convinzione di stare facendo la cosa giusta.
Il racconto nel libro si ferma alla fine del 2011, quando gli utenti di A/I sono già più di 10 mila e non sono solo italiani.
Nel suo secondo decennio di attività il collettivo ha continuato nel suo lavoro che consiste nel tenere aggiornata l’infrastruttura tecnica, che attualmente è formata da una serie di server sparsi in diversi paesi, e per migliorare il funzionamento dei servizi esistenti e fornirne di nuovi. Questi ultimi vengono sempre resi disponibili dopo una discussione interna che ne valuta l’utilità sia dal punto di vista politico che la sostenibilità tecnica ed è anche accaduto, a volte, che qualcuno dei servizi attivati sia poi stato eliminato, come (per esempio) è successo con il “Virtual Private Network” (VPN) aperto nel 2012 e chiuso qualche anno più tardi.
Nel 2013, dopo le rivelazioni di Edward Snowden sulle tecniche usate negli USA e in tutto il resto del mondo per spiare la comunicazione elettronica, le richieste di servizi hanno inondato A/I che è stata costretta per qualche giorno a bloccare tutte le nuove richieste. Il numero di utenti intanto ha continuato a crescere, a fine 2013 si contavano: 17500 caselle di e-mail, 5500 blog, 3200 mailing list, 1800 siti web.
Nel corso del 2015, proseguendo nel miglioramento della sicurezza, A/I ha implementato l’autenticazione a due fattori mentre risale a metà di settembre del 2017 il più grave degli incidenti possibili in una struttura informatica, ovvero la violazione dell’account di un amministratore, il primo in sedici anni. Quest’ultimo avvenimento e lo stillicidio di richieste provenienti dalle autorità di polizia di molti paesi che chiedono di conoscere i dati degli utenti o di censurare il contenuto di blog e siti hanno portano il collettivo di gestione a reagire non solo sul piano tecnico.
Negli ultimi tre anni la struttura tecnica dei server di A/I è stata modificata per renderla più resistente e parallelamente l’Associazione è riuscita a farsi riconoscere come “associazione di volontariato”, scoprendo che le leggi sono così stupide da chiedere a una associazione nella quale non ci sono dipendenti pagati ma solo volontari di avere diverse decine di migliaia di euro sul conto bancario per ottenere questo genere di riconoscimento. L’aspetto positivo è che adesso si può donare il 5 per mille tramite la dichiarazione dei redditi (Modello CU Unico e 730) usando il codice fiscale 93090910501.
Per sostenere concretamente le assemblee e le iniziative di gruppi e collettivi che sono stati costretti a utilizzare maggiormente la Rete a causa delle misure di contenimento della pandemia A/I ha messo a disposizione due nuovi servizi: una piattaforma per videoconferenze e un server per trasmettere in Rete in tempo reale contenuti audio-video. Come sempre i due servizi sono gratuiti e garantiscono la riservatezza di chi li adopera, al contrario di quelli sicuramente più usati ma che sono gestiti da imprese a scopo di lucro. Alla fine del 2020, dopo l’eliminazione di quelli inattivi, si contavano 11500 indirizzi e-mail, 14000 blog, 6000 mailing list e 1100 siti web ancora funzionanti.
Nel corso degli anni, alcune ed alcuni di quelli che hanno fatto parte del collettivo di gestione lo hanno lasciato, ma sono anche subentrate altre ed altri. Si inzia anche notare un divario di età nel gruppo che, nonostante tutto, fa ben sperare per il futuro.
Sappiamo che il tempo su Internet si misura diversamente che nella vita reale e che venti anni sono davvero tanti ma siamo sicuri che A/I continuerà a r-esistere ancora, all’indirizzo https://www.autistici.org

Pepsy

[*] Autistici & Inventati, “+kaos. 10 anni di hacking e mediattivismo” (a cura di Laura Beritelli), Agenzia X, 2012.

Aaron Swartz. La conoscenza per tutti

La scorsa settimana in molti hanno ricordato il suicidio di Aaron Swartz avvenuto l’11 gennaio 2013, due giorni dopo che era stata respinta una istanza presentata dai suoi legali per evitargli una condanna che poteva arrivare fino a 35 anni di carcere e 1 milione di dollari di multa.

La sua biografia sembra proprio quella del piccolo genio informatico che a 13 anni vince un premio di mille dollari per un progetto di una biblioteca collaborativa on-line, frequenta Atenei prestigiosi come Harward e la Stanford University, è coinvolto nella creazione di strumenti di programmazione usati ancora oggi e nello sviluppo di start-up commerciali. A leggerla sembra essere la classica storia di una persona destinata a mettere in piedi un progetto che lo renderà ricco e famoso prima dei trenta anni. Ma la vita di Swartz ha un finale diverso, probabilmente anche a causa della sua sensibilità ai problemi sociali, una caratteristica che non sempre si associa alle menti brillanti.

Nel 2007, chiamato a tenere una conferenza presso il NIT di Calcutta, aveva intitolato il suo intervento “Come fare a trovare un lavoro come il mio” e così rispondeva alla sua stessa domanda:
“E allora, in che modo sono arrivato a una occupazione simile? Indubbiamente, il primo passo è dotarsi dei geni giusti: sono nato bianco, di sesso maschile, statunitense. La mia famiglia era benestante e mio padre era già coinvolto nell’industria informatica. Sfortunatamente, non conosco nessun modo per poter scegliere queste cose, quindi non è di grande aiuto.” [1]

La coscienza di essere un privilegiato invece che spingerlo verso lo sfruttamento egoistico del suo status lo ha portato, fin dall’inizio, a indirizzare il suo agire verso la condivisione della conoscenza una attitudine che ha segnato anche l’episodio all’origine della sua drammatica fine. A partire dal 2008 si è sempre impegnato in qualche iniziativa a favore della libertà di informazione e della condivisione della conoscenza. Impegno non solo teorico ma concreto, partecipando direttamente o con altri alla creazione di numerosi progetti legati all’attivismo digitale.

Dai documenti relativi al suo processo risulta che Aaron Swartz aveva collocato un computer all’interno di un ripostiglio del “Massachusetts Institute of Technology” (MIT) e lo aveva connesso alla rete dell’Istituto. Aveva programmato quel computer in modo che scaricasse automaticamente dalla Biblioteca digitale “JSTOR” [2] i file di articoli scientifici disponibili solo agli utenti interni. I proprietari della Biblioteca dichiararono che, tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, vennero scaricati circa 3 milioni e mezzo di file prima che Aaron venisse arrestato e il computer spento.

Una delle ragioni dell’accanimento giudiziario contro l’autore di questo “reato” è dovuto sicuramente alle leggi che proteggono l’enorme giro di affari che sta dietro, ieri come oggi, al mercato delle pubblicazioni scientifiche in formato elettronico. Una fonte di profitto quasi invisibile ai non addetti ai lavori.

Nel 2021, una qualsiasi istituzione (Università, Biblioteca, Laboratorio) che voglia dare la possibilità di accesso ai propri utenti a libri o riviste scientifiche in formato elettronico deve firmare contratti per abbonamenti che costano anche centinaia di migliaia di euro all’anno. Gli editori che pubblicano in formato digitale sono più di uno e quindi le cifre che vengono spese in questo settore arrivano anche a milioni di euro all’anno e non tutte le istituzioni, soprattutto quelle dei paesi più poveri, possono permettersi di sostenerle.

Aaron Swartz sapeva bene che “l’informazione è potere” [3] e nella sua breve e intensa vita si è sempre adoperato per contrastare la “privatizzazione” del sapere che, in campo scientifico, significa anche costringere nell’ignoranza chi, impegnato nella ricerca della conoscenza, non ha le risorse economiche per accedere ai risultati delle ricerche internazionali. Non a caso Swartz ha collaborato alla creazione delle specifiche dell’RSS [4] e alla creazione delle “Creative Commons Licenses” [5], due risorse importanti per coloro che lottano per la condivisione della conoscenza senza fini di lucro.
Anche grazie al suo impegno e alla sua lotta, insieme a quella di altri e altre meno noti, oggi anche le più tradizionali istituzioni hanno iniziato a occuparsi – in modo più o meno serio – di “accesso aperto” e questa tendenza si è talmente estesa che i padroni del “copyright” hanno persino inventato dei meschini sotterfugi per continuare a mantenere le loro posizioni di potere economico. Per fare un esempio negli ultimi anni i grossi editori di pubblicazioni elettroniche hanno iniziato a proporre ai loro clienti i cosiddetti “contratti trasformativi” che avrebbero lo scopo di permettere la transizione del sistema di comunicazione scientifica da “chiuso” ad “aperto” (sic). Questo genere di contratti però si applicano solo ad alcune categorie di riviste. Questo ha provocato (non ne dubitavamo) un aumento dei guadagni per gli editori: se una Università è abbonata a una rivista che prevede l’accesso libero ad alcuni degli articoli disponibili dovrà pagare, oltre che il costo dell’abbonamento, anche una cifra (non simbolica) per ognuno degli articoli che deciderà di rendere disponibili a tutti. In altre parole pagherà due volte per lo stesso articolo. Molte, se non forse tutte sicuramente la maggior parte delle Biblioteche delle Università italiane sono cascate in questa trappola.

L’ALA (“American Library Association”) quattro mesi dopo la morte, assegnò a Swartz il premio “James Madison” un inutile riconoscimento alla memoria di un giovane che aveva avuto il coraggio di praticare quello che altri, ma solo a parole, ritengono un diritto di tutti.

Aaron Swartz ha lasciato una eredità, che pesa come un macigno soprattutto su coloro che oggi si riempiono la bocca blaterando di “accesso libero” alla conoscenza, sperando di continuare a mantenere le proprie quote di fatturato.

A noi ha lasciato il compito di continuare la sua lotta.

Pepsy

 

Riferimenti

[1] Il link http://aaronsw.jottit.com/howtoget dove era archiviato il discorso citato al momento (11 gennaio 2021) sembra off-line, una copia la si può comunque trovare cercandolo sull’Internet archive.

[2] “JSTOR è una biblioteca digitale fondata nel 1995 a New York. In origine conteneva copie digitalizzate di vecchie annate di riviste accademiche. Oggi contiene anche libri e pubblicazioni correnti. A questo archivio accedono migliaia di istituzioni da più di 160 paese, nella maggior parte dei casi pagando un abbonamento, esiste anche una parte dell’archivio ad accesso libero. Nel 2015 le entrate della biblioteca sono state di 86 milioni di dollari” (vedi https://en.wikipedia.org/wiki/JSTOR)

[3] La frase è all’inizio del suo “Guerrilla Open Access Manifesto” leggibile qui https://aubreymcfato.com/2013/01/14/guerrilla-open-access-manifesto-aaron-swartz/

[4] RSS (sigla di RDF Site Summary) è uno dei più popolari formati per la distribuzione di contenuti Web (vedi https://it.wikipedia.org/wiki/RSS).

[5] Le “Licenze Creative Commons” sono delle licenze riguardanti il “diritto d’autore” indirizzate in senso contrario all’esclusiva monetarizzazione (vedi https://it.wikipedia.org/wiki/Licenze_Creative_Commons).

 

Pubblicato su “Umanità Nova“, n.2 del 31/01/2021